A cinque anni di distanza, gli Autopsy sono tornati il 30 settembre con un nuovo album, “Morbidity Triumphant”, settimo sigillo di una carriera impeccabile, votata alla causa di un death metal putrido e ferale, di cui loro stessi rappresentano gli storici araldi. Ne abbiamo discusso con il cantante e batterista Chris Reifert, in un’intervista che testimonia il grande amore per la musica di uno dei protagonisti più iconici della scena estrema.

Ciao Chris, benvenuto sulle pagine di SpazioRock. Come stai?

Non c’è male, grazie. E pronto a rispondere alle tue domande.

Benissimo, allora iniziamo. “Morbidity Triumphant”, pubblicato lo scorso 30 settembre, segna il grande ritorno sulla lunga distanza degli Autopsy dopo “Skull Grinder” del 2015. Come è stato accolto il nuovo album da critici e appassionati?

A oggi abbiamo ricevuto riscontri davvero buoni. Quando iniziamo a scrivere un album, non sappiamo mai cosa accadrà: qualcuno potrebbe amarlo, a qualcuno potrebbe semplicemente piacere, qualcun altro lo odierà, altri ancora non se ne preoccuperanno affatto. Visto che i feedback sinora sono stati estremamente positivi, siamo molto felici.

Il nuovo album è sì un perfetto esempio di death metal old school, ma allo stesso tempo è molto fresco, molto moderno. Come avete lavorato al processo di songwriting per ottenere questo grande risultato? Non è così semplice, dopo tanti anni di carriera …

Grazie mille. Lavoriamo più o meno allo stesso modo da sempre, sia a livello di songwriting che di registrazione. Effettivamente, niente è cambiato dal 1987, volevamo soltanto essere noi stessi, gli Autopsy, e non cambiare troppe cose. Sia quando scriviamo che quando incidiamo il materiale non pensiamo: semplicemente andiamo in studio, suoniamo batteria, chitarre e basso direttamente dal vivo, aggiungiamo strato su strato voce, assoli, armonie e poi mescoliamo il tutto. Tutto è estremamente semplice e lineare.

“Stab The Brain” e “Voracious One” rappresentano i punti salienti dell’album, l’una aggressiva, paludosa, doomish, mentre l’altra, pur conservando le medesime caratteristiche, possiede un mood più accattivante. Cosa pensi di tali impressioni?

Mi fa piacere che lo dici, ma i giudizi sulle canzoni sono sempre soggettivi. Abbiamo sentito molte persone definire come preferita quasi ogni traccia dell’album. Questo è davvero fantastico, anche perché chi ama un determinato brano di “Morbidity Triumphant” non significa che detesti il resto, anzi è l’esatto contrario. In poche parole, noi abbiamo realizzato il disco e ci piace, ma spetta ad altri decidere il suo valore. Certo, se qualcuno predilige specifici pezzi, ne siamo felici.

Per “Knife Slice, Axe Chop”, altro pezzo forte del disco, è stato realizzato un video dal pronunciato taglio cinematografico. Come è nata l’idea di girare un filmato del genere?

In realtà abbiamo soltanto fornito la musica per il video. Quindi il nostro lavoro è stato abbastanza facile. Sono stato in contatto per un po’, un anno o forse due, con questo ragazzo di nome Cameron Schwartz e sono diventato suo amico. Lavora per una società di produzione chiamata Rabbit Dog Films e mi ha spesso ripetuto che un giorno gli sarebbe piaciuto girare qualcosa con noi. Non abbiamo avuto nulla per molto tempo, ma poi, con la registrazione del nuovo album, all’improvviso abbiamo scoperto un sacco di opportunità. E così, dal momento che Cam era ancora disponibile, abbiamo scelto una canzone, “Knife Slice, Axe Chop”, e gliela abbiamo fatta ascoltare. Non era solo, c’era anche il suo team e insieme hanno sviluppato l’idea per il filmato; dal Canada, dove abitualmente operano, ci hanno inviato gli estratti del work in progress e si sono assicurati che fossero di nostro gradimento. Non abbiamo chiesto di cambiare nulla considerato che ci soddisfaceva molto ciò che vedevamo. Il risultato finale ci ha conquistato completamente. È stato incredibile. Se ce lo avessero mostrato quando eravamo dei diciottenni alle prime armi, saremmo andati fuori di testa. Avremmo esclamato: “Oh mio Dio, questo è il video migliore del mondo!”. Siamo super contenti.

Un altro aspetto meraviglioso dell’album è l’artwork di Wes Benscoter. Gli avete dato qualche suggerimento per la copertina o ha lavorato in totale autonomia?

Sì, Wes è fantastico. Amiamo il suo lavoro. Abbiamo lavorato con lui diverse volte e non credo che gli abbiamo mai imposto una determinata idea né gli abbiamo mai detto come sarebbe dovuto essere un artwork, con parole o frasi tipo: “Ehi, disegna questo o dipingi quest’altro”. Non l’abbiamo mai fatto. Di solito, gli diamo solo il titolo dell’album, o quello delle canzoni, forse qualche testo dal quale trarre ispirazione, a cui a volte presta attenzione e a volte no. Per “Morbidity Triumphant” aveva pochissimo in mano, per il resto ha concepito tutto in maniera indipendente, ci ha inviato uno schizzo a matita ed era fantastico. Abbiamo esclamato: “Wow. Ci piace, Sì, continua. È meraviglioso!”. Ci ha inviato dei video con i progressi del lavoro e abbiamo adorato tutto ciò che vedevamo, approvandone via via i risultati e assicurandoci che ci piacessero. Abbiamo chiesto soltanto una piccola modifica; c’è un personaggio nella parte anteriore del dipinto, con il dorso voltato verso chi osserva la cover. Questa parte posteriore era un po’ troppo pulita e gli abbiamo suggerito di rendere la sua schiena più disgustosa. “Wes, metti un po’ di foruncoli o qualcosa del genere sulla schiena”. E così West l’ha fatto. Che copertina magnifica!

La discografia degli Autopsy è strettamente legata alla Peaceville Records. Quali sono i segreti del legame ultratrentennale che vi unisce?

Non lo sappiamo esattamente. Sono sempre stati buoni e giusti con noi. È pazzesco perché gli Autopsy si sono formati nel 1987 e la Peaceville è nata lo stesso anno, e poi abbiamo firmato con loro nel 1988. E sì, siamo ancora qui. Quanti sono? 34 anni? Se mai ci dessero un motivo per andare da qualche altra parte, potremmo farlo. Ma ci piace molto lavorare con loro. Sono una buona label, hanno una reputazione invidiabile e non sono una major, altrimenti ci perderemmo nel calderone di centinaia di band. Credo ci porgano un’attenzione maggiore proprio perché non sono così grandi. Non hanno tonnellate e tonnellate di gruppi nel roster, ne hanno solo una manciata e a tutte danno un’ottima promozione. Non so se cambieremo mai etichetta, siamo troppo felici di questi ragazzi.

“Severed Survival” e “Mental Funeral” restano dei capolavori ineguagliabili. Ma cosa resta oggi dei vecchi Autopsy e e cosa è cambiato?

Nulla è davvero cambiato. Non vogliamo ripetere le stesse canzoni che abbiamo già fatto, né modificare leggermente un vecchio brano e poi chiamarlo inedito o qualcosa del genere. Penso siamo abbastanza coerenti in termini di scrittura, registrazione, artwork e via dicendo. In un certo senso, vogliamo solo attenerci al nostro stile. Non vogliamo imitare “Severed Survival” o “Mental Funeral” all’infinito, sarebbe un atto di pigrizia. Vogliamo inventare cose nuove, ma allo stesso tempo sentire chi ci ascolta dire: “Oh, ma sono gli Autopsy!”. Non faremmo mai un album che suoni come i Dream Theater, ci limitiamo a seguire quello che sappiamo fare. E sembra funzionare abbastanza bene.

Sei coinvolto negli Static Abyss insieme a Greg Wilkinson, mentre con i Siege Of Power sei in compagnia di membri di Asphyx e Hail Of Bullets. Cosa riesci a esprimere di diverso in queste band rispetto agli Autopsy?

Mi diverto da matti. Gli Static Abyss sono stati e sono tutt’oggi una band molto spontanea. Non sapevamo al cento per cento cosa sarebbe potuta diventare. Le canzoni di “Labyrinth Of Veins”, uscito lo scorso aprile,  sono state create sul momento, non abbiamo provato nulla in anticipo. Greg ha lanciato dei riff e li abbiamo trasformati in pezzi coerenti; quando uno di esso sembrava completo e sapevamo come suonarlo dall’inizio alla fine, l’abbiamo registrato, ma una alla volta. Greg, oltre a essere un musicista, è un ingegnere del suono e sa come dare una forma ai brani. All’inizio, in realtà, non avevamo intenzione di realizzare album che qualcuno avrebbe poi pubblicato, era solo un’idea pazza, un qualcosa di spassoso da fare. Pian piano, però, la cosa è diventata più seria, la Peaceville si è dimostrata interessata al progetto e quindi abbiamo debuttato. Anche con i Siege Of Power è stato fantastico. Paul Baayens, Bob Bagchus e Theo Van Eekelen sono dei vecchi amici, ma abbiamo dovuto registrare il materiale di “Warning Blast” a distanza perché loro risiedono tutti nei Paesi Bassi, mentre io abito negli Stati Uniti. Quindi mi mandavano la musica, io scrivevo i testi e poi andavo in studio a cantare. Dovendo stare soltanto al microfono è stato un po’ più facile per me, un paio d’ore e il gioco era fatto. Sai, fin quando sono fisicamente in grado di fare cose diverse tra loro, tutto è possibile: d’altronde, si vive una volta sola.

È il momento di una domanda che mi ha sempre incuriosito, soprattutto calata in un ambito estremo come quello del death metal. Cantare e suonare contemporaneamente la batteria è così complicato e faticoso?

Mi sono abituato strada facendo, non era mai stato qualcosa che volevo fare. Quando abbiamo creato la band, volevamo scovare un cantante che si occupasse soltanto della voce, un frontman classico, mentre il sottoscritto avrebbe dovuto sedere dietro la batteria e basta. Ma non siamo riusciti a trovare nessuno, il death metal ai tempi era ancora un genere nuovo e non molte persone erano interessate né sapevano dell’esistenza di tale tipo di musica, soprattutto nel luogo dove vivevamo in quel momento. Quindi abbiamo deciso di fare un tentativo e vedere cosa sarebbe successo con me al microfono. E, sorprendentemente, tutto è stato naturale. Non è stato difficile imparare, è solo che ci vuole un sacco di energia, sai? (ride, ndr)

Tantissima è un eufemismo, credo.

Sì, settanta minuti di concerto sono davvero intensi. È come se dessi tutto quello che ho dentro. Ormai ci ho fatto l’abitudine, è più di trent’anni che suono e canto contemporaneamente e neanche ci penso più di tanto. Basta mettere il pilota automatico. Onestamente, però, sono molto stanco alla fine di ogni spettacolo, ma è un bene, mi tiene in vita e fa funzionare le mie parti mobili.

Attualmente ci sono moltissime band che suonano death metal old school. Autopsy, Asphyx, Morbid Angel, Deicide e altri giganti del settore vengono continuamente rielaborati, spesso e volentieri senza grande originalità. Pensi che nel contesto della musica estrema sia difficile fare qualcosa di veramente nuovo oggigiorno?

Direi sì e no. È un po’ come se fosse già stato fatto tutto prima, si è sentito l’impossibile in ambito death metal, non importa se lo chiami old school, new school o altro. Oggi è una bella sfida distinguersi, è davvero molto duro, ci sono milioni di band in giro, su Internet, YouTube e compagnia cantante. Noi siamo stati fortunati perché abbiamo iniziato quando il genere era piuttosto nuovo e ci siamo affermati sin da subito. Ora è più difficile farsi notare, ma questo è un bene perché ti fa pensare in modo creativo quando scrivi, che si tratti di testi, di musica o di entrambe le cose. Credo che la cosa migliore che puoi fare quando suoni death metal, o anche altri generi, sia costruire delle belle canzoni, con riff che si amalgamano bene insieme e magari riuscire a comporre qualcosa di cui in futuro si potrebbe dire: “Ricordo questo brano, voglio sentirlo ancora!”. Questa è la cosa migliore che un artista si augurerebbe sempre. Io ascolto tutto quello che si produce ora, mi piacciono gli album, sono fantastici, la voce è buona, le chitarre anche, ma dopo un po’ non ricordo nulla. Ci siamo sempre presi molta cura del songwriting, non abbiamo mai pensato di suonare più velocemente o più lentamente di altri per mostrare le nostre capacità esecutive. Quando scrivi davvero bene, la gente si sente eccitata appena la canzone parte. Quello che consiglierei ai giovani gruppi, dunque, è quello di realizzare pezzi di cui le persone un giorno avranno memoria invece di esibirsi in inutili sfoggi di tecnica. Io sto invecchiando, fatemi sentire qualcosa di buono (ride, ndr).

Sarà possibile vedere gli Autopsy in tour in Europa il prossimo anno? Magari in Italia?

Saremo nei Paesi Bassi il prossimo luglio allo Stonehenge Fest, ma è tutto ciò che abbiamo programmato per gli spettacoli all’estero in questo momento. Non credo che faremo mai più un tour vero e proprio, viaggiare per settimane o un mese o qualcosa del genere. Abbiamo vite private che ci soddisfano, quindi non vogliamo stare lontani da casa per un tempo molto lungo; per quanto strano possa sembrare, non siamo una band a cui piace andare in giro. Ci spostiamo raramente fuori dagli USA, di solito un paio di volte l’anno o poco di più. Vedremo cos’altro succederà, non si sa mai. Magari ci saranno delle sorprese, Italia compresa.

Grazie mille per il tuo tempo. Potresti lasciare un messaggio ai lettori di SpazioRock e ai tanti fan sparsi per l’Italia?

Spero che stiate tutti benissimo. Grazie per il supporto alla band, leggete degli Autopsy e ascoltate la loro musica. Mi auguro di vedervi dal vivo. Ciao ciao.

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