L’uscita, il 10 febbraio, di “Heritage”, terzo album dei Distant, è stata l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con il chitarrista e compositore Nouri Yetgin, che ci ha dato delle delucidazioni in merito a un lavoro capace di andare oltre gli steccati del semplice deathcore, aprendosi a influenze delle più varie. Dal concept alla base del disco all’ingresso nel roster di Century Media Records, dalle collaborazioni eccellenti al ritmo frenetico dei concerti, il musicista olandese racconta il tutto con grande simpatia, tra larghi sorrisi e qualche onesta ammissione.

Ciao Nouri e benvenuto sulle pagine di SpazioRock. Come stai?

Molto bene e grazie mille per il tempo dedicato ai Distant.

È un piacere. Venerdì 10 febbraio c’è stato il release show del vostro nuovo album. Quali sono state le reazioni del pubblico?

È stato davvero incredibile e sorprendente. Le reazioni sono state davvero folli, ce lo hanno detto anche a parole, ci hanno davvero sostenuto. Hanno apprezzato lo spettacolo e mai, in realtà, mi sarei aspettato che sarebbe piaciuto a così tante persone. Un evento da ricordare quando saremo vecchi e adatto a un libro di memorie, questo è certo.

Rispetto all’esordio “Tyrannotophia” (2019) e al successivo “Aeons Of Oblivion” (2021), “Heritage” è di un altro livello: più ritmo, più elettronica, più stratificazioni, meno ossequi al diktat del low and slow. Cosa è cambiato nell’approccio al songwriting? E possiamo dire che oggi i Distant suonano cyber deathcore evoluto?

Ho già sentito molte persone parlare di cyber deathcore. In realtà, non avendo scritto il libro che è alla base del concept, non posso dirti molto a tal proposito. Ma l’obiettivo di questo disco era che fosse più futuristico, visto che ha a che fare con la storia sci-fi che il nostro bassista Elmer (Maurits, ndr)  e Alan (Grnja, ndr) hanno creato. Però ho pensato che anch’io avrei dovuto fare qualcosa, soprattutto qualcosa di diverso. Perché se ogni volta componi la stessa canzone o con lo stesso stile, tutto diventa noioso. Almeno per me è così. Ecco il motivo per cui ciascun brano è differente dall’altro, uno è più hardcore, uno più deathcore, uno più slam, aggiungi tu ulteriori sottogeneri. Ma cosa è cambiato davvero? Ebbene, questa volta abbiamo lavorato a stretto contatto con un produttore come Howard Fang dei Within Destruction, che si è interessato alla struttura complessiva dei brani. Ha grande talento in quello che fa, è fantastico. Quando gli inviavo i file contenenti le parti di chitarra, chiedevo sempre cosa ne pensasse e come avrei potuto migliorare quelle bozze. Howard è pieno di grandi idee e dunque mi suggeriva cosa modificare e inseriva egli stesso alcuni effetti qua e là. Ed è così che il disco ha preso vita.

Un’altra grossa novità è stato il passaggio dalla Unique Leader Records a una major della musica estrema come la Century Media. Ci sono stati solo benefici nella transizione da una label all’altra?

Ci sono stati sicuramente dei vantaggi nel cambio. La differenza più grande non sta nella qualità delle pubbliche relazioni, nella capacità di marketing o nella maggiore disponibilità di denaro. Jamie Graham, CEO della Unique Leader, ha davvero talento in quello che fa, ma il team operativo è molto piccolo, mentre Century Media è decisamente più strutturata, visto che ci lavorano centinaia di persone. Penso che per noi questo renda le cose più facili.

Un ulteriore aspetto intrigante del platter è rappresentato dalla copertina. L’artwork, infatti sarebbe perfetto per un videogioco della PlayStation …

Ha a che fare con la storia dietro i brani e, a essere onesto, vorrei sì rispondere a questa domanda, ma allo stesso tempo, non conosco i vari passaggi del plot perché non ho letto il libro. La trama, comunque, riguarda il conflitto tra un padre e il proprio figlio, con questi che torna per vendicarsi perché il genitore è un tiranno. La seconda parte delle vicende avviene nel futuro ed è per questo che la copertina ha un aspetto fantascientifico. Se ricordi la copertina del singolo “Cursed”, ti accorgerai che c’è continuità narrativa tra i due artwork.

A proposito del libro che è stato pubblicato contestualmente ad “Aeons Of Oblivion” per delucidarne e arricchirne la comprensione, scriverlo ha richiesto un impegno gravoso per Elmer e Alan?

Alan ha composto una storia con un intreccio letterario, ma ugualmente puoi identificarti e relazionarti con essa, il significato è universale. Sia lui che Elmer hanno sempre voluto realizzare un romanzo, ma il loro desiderio non si era mai avverato. Quando però c’è stata la pandemia, eravamo tutti chiusi in casa e con molto tempo libero a disposizione. Così hanno preso in mano la penna e finalmente è venuto fuori il libro. L’idea era lì fin dall’inizio, ma serviva l’occasione giusta per renderla concreta.

Passiamo alle canzone. La prima domanda in questo senso appare quasi scontata: come è nata la folle “Argent Justice”? Sembra una specie di “We Are The World” del cosmo deathcore, non credi?

In realtà, tutto è iniziato con “Argent Debt”, pista contenuta in “Aeons Of Oblivion”. Ne avremmo dovuto fare in realtà uno split con un altro gruppo, ma non so perché questo non sia mai avvenuto. Avevo in mano il 50% del brano e aspiravo a terminarlo. Ne ho parlato con la band e Alan mi ha detto di inserire alcune voci ospiti sulla canzone, dividendo le parti per ciascun cantante e ottenere così qualcosa di malato. Una cosa tipo The Avengers o Justice League, visto che siamo appassionati della Marvel e della DC. Decidemmo, però, di chiamare dei singer di piccole formazioni, poiché non volevamo esagerare, ma solo fare qualcosa di divertente. Insomma, era un bel pezzo e lo volevamo nell’album. È venuto fuori così bene che ci siamo promessi di rifarlo in grande stile. Avremmo realizzato una traccia che sarebbe piaciuta ai fan e inoltre adoriamo collaborare con persone diverse, impari sempre cose nuove ed è anche spassoso. E così è nata “Argent Justice”. I sedici artisti che partecipano sono degli amici con cui chiacchieriamo quotidianamente e rappresentano altresì una continua nostra fonte di ispirazione; abbiamo scritto per ciascuno una sezione apposita, niente è stato lasciato al caso e nessuno è saltato a caso sul carro improvvisando la propria parte.

Un’altra collaborazione è quella con Will Ramos dei Lorna Shore, presente dietro il microfono nella title track. Che puoi dirci al riguardo?

Abbiamo suonato il primo concerto con loro nel marzo di un anno fa. Non ricordo esattamente come siano andate le cose, ma incontrai Will e gli dissi che avevamo bisogno di una voce ospite sulla title track. La canzone era ancora in fase di scrittura e dunque faceva schifo, ma ne era entusiasta e ha accettato. Gli abbiamo inviato la canzone prima dell’estate e tra giugno e luglio era tutto pronto. Tra l’altro abbiamo filmato le parti del videoclip nei giardini intorno al backstage del Summer Breeze Open Air Metal Festival. Così la collaborazione è diventata viva, in tutti i sensi.

Mi sbaglio, o “Orphan Of Blight” e “Plaguebreeder” hanno, invece, un sorprendente taglio sinfonico?

Sì, entrambe sono decisamente sinfoniche. Volevamo provare qualcosa di diverso rispetto a quello che facevamo prima, ci piace molto sperimentare.

I Distant sono coinvolti, fino ad aprile, nel Big Team Battle Tour con Bodysnatcher, AngelMaker e Paleface. Poi a maggio toccherà al Vecchio Continente accogliervi. Come stanno andando i concerti statunitensi? E cosa ti aspetti da quelli europei?

Mi ammalerò visti i tanti concerti (ride, ndr). Ci sono già molti spettacoli sold out, tipo 3400 posti tutti esauriti, ma penso che in realtà sia meglio così. Abbiamo fatto parte di alcuni tour più grandi, ma c’erano sempre barriere e recinzioni. Nel release show di venerdì 10 febbraio non c’era nulla, le persone potevano saltare sul palco, ma adoro l’interazione. Preferisco suonare con quest’atmosfera perché amo l’energia. I live negli Stati Uniti sono stati e continuano a essere fantastici, ma in Europa sarà ancora più eccitante perché per la prima volta faremo da headliner. Ma niente Italia purtroppo.

Volevo concludere con una domanda che mi ha sempre incuriosito. I Distant sono in parte olandesi e in parte slovacchi: dove, quando e come vi siete incontrati e avete messo in piedi la band?

Probabilmente sei anni fa, eravamo ubriachi su qualche divano in Belgio. Eravamo già una band, ma nella fase embrionale. Durante il nostro primo tour incontrammo Alan, ma lui suonava in un gruppo diverso e insieme abbiamo condiviso il palco per quella breve serie di spettacoli. Poi Alan lasciò il gruppo a causa di qualche problema con il batterista, che oggi è con noi (Jan Mato, ndr), e ha smesso di fare musica. Poi i Distant hanno avuto dei problemi con il cantante, sapevamo che non avrebbe avuto un futuro brillante. Sul famoso sofà fiammingo chiesi dunque ad Alan, che intanto era diventato tour manager di un altro gruppo, di unirsi a noi. E la risposta è stata positiva.  All’inizio non ci fu nessun guadagno, dovevamo pagare tutto di tasca nostra, compresi i biglietti aerei. È stata davvero dura. Eppure siamo andati avanti perché eravamo e siamo una specie di Enterprise: tutti viviamo in stati diversi, ma ci troviamo in Europa e quindi basta volare gli uni dagli altri quando è necessario. L’abbiamo appena fatto e ha funzionato. E in questi giorni in cui sto scrivendo, faccio tutto sul MacBook nella mia stanza e mando il materiale ai ragazzi, il che rende le cose ancora più semplici. Per la pratica insieme, utilizziamo monitor interni e track click  e quando c’è un concerto, o l’inizio di un tour, ci vediamo in sala prove due o tre giorni prima. Ma siamo già perfetti al 90% nelle jam dal vivo.

Nouri, grazie mille per l’intervista. Lasceresti un messaggio ai tuoi fan italiani e ai nostri lettori?

Se ascoltate la nostra musica e ci sostenete, vi sono davvero grato perché, delle ventiquattro ore che avete al giorno, ne trascorrete un po’ con noi. Non potrei essere più felice. Un saluto affettuoso a tutti.

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