Articolo a cura di Giovanni Ausoni e Ludovica Iorio

In occasione del concerto del prossimo 6 giugno all’Alcatraz di Milano, ripercorriamo la storia dei Bauhaus attraverso i brani più significativi della loro carriera. La band inglese, formazione di punta della corrente dark del post punk nata agli albori degli anni ’80, si presenterà con la line-up originale, per un evento musicale che profuma di arte a tutto tondo.

Bela Lugosi’s Dead
“Undead undead undead”

Incisa nel gennaio del 1979 sulla piccola etichetta Small Wonder, “Bela Lugosi’s Dead” è la canzone più iconica e conosciuta dei Bauhaus, ma rappresenta anche un qualcosa di anomalo nel loro repertorio. Lungo quasi dieci minuti e dalle trame sonore sottili come ragnatele, il pezzo, costituisce, secondo tradizione, l’atto fondante del movimento gothic, ponendosi a latere sia del post-punk spesso ispido di “In the Flat Field”, sia dell’art rock tout-court esperito successivamente.  La chitarra tintinnante e minimale, il basso dub, l’influenza reggae dietro il contrarsi elastico della batteria, gli effetti eco, il ritmo da orologio incrinato, un Peter Murphy che aspetta quasi centottanta secondi prima di fare un ingresso a dir poco sepolcrale, generano un terrore furtivo e presago. Tra i pipistrelli che volano dal campanile e le spose vergini che sfilano davanti alla tomba di Bela Lugosi, cospargendola di fiori marci, gli inglesi sembrano serrarsi nel mantello tarlato con cui il cadavere dell’attore di origine ungherese venne avvolto – obtorto collo – dopo la morte, lui che interpretò il Dracula cinematografico della Universal (1931), affezionandosi così tanto al personaggio da restare legato per sempre a esso. Atmosfere spettrali da B-movie inondano dunque lo spazio, per un brano atemporale che trovò la propria sublimazione all’interno delle sequenze iniziali del film “Miriam si sveglia a mezzanotte” (1983), nel cui cast spiccava la presenza di David Bowie: esorcismo completo.

Dark Entries
“Went walking through this city’s neon lights”

Secondo singolo dopo “Bela Lugosi’s Dead” e inserito quale opener in alcune edizioni del debutto “In The Flat Field”, “Dark Entries” (1980) non soltanto costituisce un vero e proprio manifesto del dark punk, ma segna anche il passaggio dei Bauhaus dalla piccola Small Wonder alla Beggars Banquet, all’epoca una delle label indipendenti più importanti della Gran Bretagna. Se il precedente pezzo dedicato all’attore interprete di “Dracula” veicolava un’epica cimiteriale e naïf, qui ci troviamo di fronte a un pezzo secco e tenebroso, dove chitarre dal timbro noise si scontrano con linee di basso filtrate e monumentali, generando, con la fondamentale cooperazione della batteria in 4/4, una progressione ritmica dal taglio rock accattivante e orecchiabile. Murphy, carismatico come non mai, canta le miserie delle metropoli moderne, in particolare soffermandosi sulla piaga atavica della prostituzione, nei cui avvilenti servigi l’io lirico protagonista del brano precipita inesorabilmente, senza però che l’autocommiserazione prevalga sulla lucidità del vissuto. Evidente, soprattutto a livello estetico, l’influenza dei The Velvet Underground e di un film come “Taxi Driver”, per una pista capace di fornire un’istantanea ficcante della decadenza urbana occidentale, mostrando l’altro volto dell’edonismo degli incipienti anni ’80.

Double Dare
“I dare you to speak of your despise”

Il 3 novembre 1980 vede la luce, su 4AD, il fenomenale “In The Flat Field”, debutto nel quale i Bauhaus riuscirono a condensare tutti quegli elementi che li renderanno unici e riconoscibili, modellando un dark punk infuso di gothic e di un pizzico di teatralità glam. “Double Dare” rappresenta, forse, il pezzo traino dell’album, o comunque quello più simbolico, che parte con un ronzio lamentoso molto pinkfloydiano, un segnale acustico proveniente dallo spazio entro le cui spire i britannici attirano lentamente l’ascoltatore, catapultandolo nel wormhole di una trance sensuale e pericolosa. Poi una danza tribale dall’afflato satanico conquista la scena, con il densissimo basso di David J a condurre la gazzarra e Kevin Haskins che alterna tom e piatti in maniera così tonante e incisiva da dare l’impressione che in fondo alla mangiatoia sieda un secondo batterista. La chitarra di Daniel Ash stride e ulula, mentre un’agghiacciante Peter Murphy invita gli essere umani a difendere le proprie convinzioni, sinonimo di un’identità stabile spesso difficile da raggiungere e che costituisce la stessa cifra stilistica degli inglesi, sospesi in una territorio espressivo che ha tanti padri e nessun mentore. Un bifrontismo che rende l’ambivalenza regina e la pretenziosità un diritto acquisito.

St. Vitus Dance
“It’s the St. Vitus dance”

Sempre incluso nel lotto di “In The Flat Field”, “St. Vitus Dance” parrebbe riferirsi, apparentemente, a episodi religiosi di matrice agiografica, visto un titolo che evoca l’omonimo santo siciliano, perseguitato dai romani e poi divenuto martire. In realtà Murphy allude, nel testo, a quegli scatti fisici di cui si rendono protagonisti coloro che vengono colpiti dalla corea di Sydhenam, malattia altrimenti nota come ballo di San Vito, responsabile di movimenti bruschi e irregolari indipendenti dalla volontà della persona. Una brano parossistico e carico di effetti soprattutto chitarristici, contrassegnato da una sarabanda strumentale in grado di trasformare la danza patologica in un concitato sabba infernale, ricco di un senso dell’umorismo viepiù grottesco che allontana non poco i britannici dalla cupa seriosità di molti colleghi della galassia dark/gothic. Quando Mick Ronson e John Cale si incontrano in discoteca dopo aver assistito al The Rocky Horror Picture Show, il risultato non può che essere folle.

Stigmata Martyr
“In a crucifixion ecstasy”

Se le canzoni potessero essere tradotte in immagini, “Stigmata Martyr”, l’ottava traccia del lavoro di debutto discografico, ne sarebbe un esempio lampante. Con pennellate alla Goya, la narrazione di Murphy, ermetica ma pregna, dipinge le stimmate emorragiche tipiche della crocifissione, ed impresse ad immagine e somiglianza sui corpi dei santi come segni del divino: testimonianze vivide di come solo tramite la sofferenza si riesca a raggiungere l’estasi. Le uniche parti del corpo a non sanguinare sono senz’altro le orecchie dell’ascoltatore, con incastri tra gli elementi sonori da far invidia al mondo metal: i colpi picchiano con precisione sulle pelli, le sferzate sulle corde di chitarra trafiggono, i giri di chiave di basso spalancano porte, permettendoci l’affaccio su una “beatitudine scarlatta”. E così sia.

Hollow Hills
“Baleful sounds and wild voices ignored”

Gettate le fondamenta della corrente gothic e donato al mondo, con “In The Flat Field”, uno degli album migliori del post punk tutto, nel 1983 i Bauhaus tornano su Beggars Banquet per il loro secondo lavoro in studio “Mask”. Gli inglesi, decisi ad andare oltre le facili categorizzazioni di genere, complicano la propria ricetta musicale, pervenendo a un elegante equilibrio tra ambizione artistica e accessibilità. I residui glam vengono spazzati via, aumentano le connotazioni funk e dub reggae, i ritmi diventano ballabili e coinvolgenti, ma è con l’austera e nebbiosa “Hollow Hills” che Peter Murphy e soci pongono le basi, con i The Cure di “A Forest”, del dark rock che esploderà di lì a poco. Spetta a una batteria essenziale supportare la livida litania recitata dal frontman, la cui voce baritonale, abbinata agli spettrali cori in sottofondo, riesce a evocare la suggestiva magia dei mesi più bui dell’anno, incrociando ai racconti popolari le credenze delle antiche religioni pagane dell’isola albionica. Uno degli apici espressivi della band di Northampton, senza se e senza ma.

The Passion Of Lovers
“The passion of lovers is for death, said she”

Seconda traccia del di già citato sophomore album “Mask”, “The Passion Of Lovers” è uno dei brani prototipi dello stile inconfondibile del quartetto di Northampton: la band, che ha gettato di fatto le basi del gothic rock, non ha mai rinnegato di poggiare sui terreni consolidati del post-punk e della dark wave. Questa volta il cantante dà voce ad una ragazza dai morbidi ma ammalianti tratti la quale, in bilico tra la paura ed il desiderio, trascina sé stessa e il suo concubino all’interno di una spirale distruttiva, che culmina con la morte di entrambi. Il termine “passione” viene declinato nella traduzione più letterale del termine greco, ovvero “sofferenza”: un rischio che la ragazza vuole correre, pur di raggiungere il piacere assoluto. Gli elementi stilistici peculiari qui si riscontrano tutti, specialmente i giri di chitarra di Ash che vanno di pari passo con le parole recitate di Murphy, come una messa in scena di una pièce teatrale. Da applausi.

The Man With X-Ray Eyes
“I have seen too much, wipe away my eyes too much”

Proseguendo con “Mask” e facendo un salto nella tracklist, approdiamo al nono brano, “The Man With X-Ray Eyes”. L’ispirazione si rifà all’ omonimo film di fantascienza del 1963: protagonista è il dottor Xavier che riceve in dono il superpotere di guardare oltre lo spettro del visibile, con la possibilità di scandagliare oggetti, persone, nonché utilizzarlo come metodo diagnostico per malattie importanti. Successivamente però tutto questo gli si ritorcerà contro, nel momento in cui il potere aumenterà a tal punto da diventare incontrollabile ed arrivare addirittura ad uccidere; al che, messo alle strette, sceglierà di accecarsi pur di salvare la sua stessa (rimanente) esistenza. Ad accoglierci nei primi secondi sono le sonorità idiofoniche che descrivono la situazione idilliaca e fortunata dell’uomo, che lasciano subito il posto ad una danza macabra alla Siouxsie and The Banshees, in cui le grida di Murphy si librano irrefrenabili verso il cielo: una richiesta in ginocchio, affinché ciò che è diventata una maledizione abbia fine.

All We Ever Wanted Was Everything
“Oh, to be the cream”

Dopo essere giunti al terzo album in studio nel giro di soli quattro anni, la linea della prolificità intrapresa dal gruppo inizia a mostrare le prime crepe: la penultima canzone di “The Sky’s Gone Out” (1982) sembra far presagire la spaccatura che avverrà di lì a poco tra Peter Murphy e il resto della band. Il brano è una descrizione metaforica sia dei loro singoli percorsi pre-debutto che della loro storia come band dal momento della fondazione fino ad allora, in cui i desideri o le aspettative materiali non sempre arrivano dopo il duro lavoro, e ciò che pesa di più è la routine dei giorni fatti con lo stampino. Saranno poi il “lampo della giovinezza” ed il “suono del tamburo” che sveglieranno e muoveranno le coscienze dei quattro membri dal buio di un lavoro monotono a cui sarebbero stati costretti in una città industriale come Northampton. Ed alla fine, quando si assaggia il successo, è l’ingordigia poi a parlare: la bravura non basta più, essere “la crème de la crème” è la nuova frontiera della realizzazione personale…al prezzo dell’ultimatum “o tutto o nulla”. Riportata alla ribalta sotto forma di ottima cover eseguita da John Frusciante, “All We Ever Wanted Was Everything” può definirsi a pieno titolo l’ultimo vero canto del cigno della band prima dello scioglimento, in cui i carezzevoli accordi alla chitarra classica richiamano inevitabilmente le vibrazioni della bowiana “Space Oddity”.

She’s In Parties
“Freeze frame, screen kiss, hot headlights, her powder”

Traccia d’apertura del quarto album in studio “Burning From The Inside” (1983), entro la cui pubblicazione la band aveva già annunciato lo scioglimento, “She’s In Parties” sembra raccontare in forma allegorica la forte esperienza che Murphy ha vissuto dopo essere stato colpito da una grave forma di polmonite, così come la “morte” della band, consumata piano piano da dissidi interni. La scena si svolge nei pressi di una bara, che si presume contenga il cadavere della diva losangelina Marilyn Monroe: la pellicola in musica passa in rassegna gli elementi caratteristici del suo lavoro di attrice – “fermo immagine, bacio sullo schermo, fari accesi, la sua cipria” -, nonché una scena svoltasi presso un cimitero, che in realtà non ha mai recitato se non durante il suo stesso funerale, da morta. Nonostante una band ormai a brandelli, “She’s In Parties” è un sentito e riuscito canto funebre, trasudante decadenza come pochi, a testimonianza di come la maggioranza dei capolavori artistici nascano dai momenti più difficili.

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