OK, la band si chiama Sugar Darling. Un bel film italiano di un paio di decenni faceva riferimento, durante un sequenza piuttosto cruciale, all’importanza di decidere di come stare al mondo. Ora che inizio a organizzare i pensieri per parlarvi di questa band e, lo confesso, non saprei da dove iniziare, ecco che mi prende questo ricordo, questa citazione cinematografica. Gli Sugar Darling e il loro leader George O’Connor hanno deciso come stare al mondo, mi verrebbe da mettere in chiaro. Questo va detto, perché tutto il resto a seguire è un tornado di scherzi, lazzi, accelerazioni, grandiosi ridicoli momenti e esemplari lezioni di musica, un vero frullatore impazzito ma secondo precisi piani, come se scritto nelle istruzioni allegate, col paragrafo finale – in grassetto – enunciante che il piccolo elettrodomestico impazzirà ma non ci sarà da preoccuparsi, perché è tutto previsto.

Dal vivo avranno suonato al massimo una dozzina di canzoni, tutte piuttosto brevi, tutte travolgenti. Quando giorni dopo incontro George per capire meglio cosa gli passa per la testa, mi dice subito che per lui un concerto deve spiazzarti e stimolarti, e non importa quasi come ci si riesca. Proprio come lo spettacolo dal vivo dei suoi Sugar Darling, dove con ogni minuto che passa chi ho davanti a me sul palco diventa sempre più interessante e più profondo, dietro una semplice apparenza votata al divertimento. Subito gli chiedo il perché di “Sugar Darling”, e George mi spiega come il nome della band non abbia alcun significato preciso. Semplicemente lui desiderava qualcosa che suonasse bene, e che fosse di due parole, entrambe di due sillabe ciascuna, in modo tale che potesse essere stampata anche efficacemente, con una sorta di adesivo o etichetta. Sugar Darling, perfetto. Anche facile da pronunciare. La sua spiegazione non fa una piega, davvero.

George O’Connor scrive le canzoni, le distribuisce al resto della band, e le arricchiscono insieme. I testi, anche questi parecchio fuori dagli schemi, sembrano seguire la stessa logica del nome della band: l’importante è che suonino bene, a prescindere quasi dal significato. Una forte e stimolante forma di coerenza artistica, questo mi sembra George porti con sé. Quando a fine concerto ho pensato di aver assistito a quasi a una sorta di lezione di musica, non mi sbagliavo: Alasdair Poon alla chitarra, Billy Harold al basso e Flynn Everard alla batteria sono tutti e tre persone che lavorano insegnando musica e che hanno accettato di tuffarsi in questo zuccherato mare di idee. Durante il loro spettacolo succede di tutto, e tutto procede in maniera così fluida e spedita: si prendono in giro, si fanno linguacce, George lancia e fa rimanere impigliata nel soffitto la sua t-shirt. Si scambiano strumenti, e suonano anche una tastierona Yamaha sopravvissuta e giunta a noi direttamente dagli Anni Novanta, con tanto di tasto mancante e suoni di un tempo che non c’è più, e che nemmeno manca a nessuno. Gli chiedo di parlarmi di tale tastierona e lui si limita a dire che l’ha pagata dieci sterline, ovviamente molto usata, che ci si diverte, che ha tutto quello che gli serve e che soprattutto pesa un accidente, quando si spostano. Già, perché loro hanno base a Guildford, paesone alle porte di Londra e girano dove il vento li porta a mostrare questo show a metà strada tra cartoni animati, heavy metal, armonie vocali degne dei Beach Boys, e tanto humour.

Una loro buona traccia da esempio? ”Changing Games” dal loro primo e unico album autoprodotto: io penso che ci vogliano tre-quattro ascolti per domare un brano così. Un altro esempio, per guardarli in faccia a questi quattro fenomeni? Il loro video di “Baboon!” (“Climb the jungle gym, clever and lean. I’m a monkey boy, making a scene” … e poi che brano da ascoltare on repeat alle sette di mattina, altro che doppio caffè). Vorrei evitare, ma non posso non chiedergli di Zappa, proprio citandogli “Does Humor belong in Music?”, album che davvero sono sicuro a George sia noto e anche fonte di ispirazione. Invece lui mi confessa di conoscere poco Frank Zappa, e che ne apprezza soprattutto “Jazz From Hell”, l’album di musica elettronica interamente prodotto al Synclavier (un computer, essenzialmente) dal genio di Baltimora. Tra una sessantina di album, il leader delgi Sugar Darling conosce e sceglie proprio uno degli album di Zappa più visionari, strampalati e geniali. George, a margine, scrive anche musica elettronica. Ho la sensazione che lui in generale non ci pensi due volte di fronte a una sua idea, e che la accetti e pensi direttamente a come svilupparla. Mi spiazza un po’ quando nomina i Beatles semplicemente come sua band preferita… ma poi tira fuori nomi come Focus, Mr. Bungle, Gentle Giant, Genesis, Secret Chiefs 3, Allan Holdsworth… insomma un panorama di artisti tanto variopinto quanto assolutamente libero da catalogazioni. A me la sua band ricorda inoltre i Primus, soprattutto nelle intenzioni, e i Less Than Jake, per oserei dire il piglio e l’esplosività in alcuni passaggi, soprattutto dal vivo. Insomma, una miscela fuori di testa, meravigliosamente fuori di testa, liberi.

Tornando alla fortunata sera in cui me li sono trovati davanti a questi quattro scalmanati, quando salgono sul piccolo palco del Cavendish Arms, Billy – il bassista – indossa un copricapo a forma di squalo (che toglierà pressoché immediatamente credo perché stesse crepando di caldo) e il batterista Flynn un voluminoso copricapo giallo a forma di calamaro, che invece terrà tutto il concerto. Il motivo? Non lo so, non glielo ho chiesto, ma credo fortemente fosse solo un voluto nonsense, fresco di mercato del pesce, e strepitoso. Ma proprio loro due, Billy e Flynn, fanno la loro importante parte in questa spremuta di spettacolarità: Billy Harold tutto plettro e controllo totale dello strumento, più un’espressione eternamente divertita. Flynn Everard con pattern di batteria sempre diversi ed efficaci, e anche un microfono appiccicato in faccia, perché inoltre negli Sugar Darling cantano praticamente tutti.

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Foto: Lucy Cheyne

Come se fosse musica colta per cartoni animati, George mi spiega che uno dei concetti dietro il loro prossimo (vero e proprio) album in uscita risiede nell’idea di vedere la sua musica e le sue composizioni attraversare diversi livelli, di traccia in traccia. Letteralmente, mi dice, come in un videogioco dove il personaggio attraversa lo scenario del fuoco, quello del ghiaccio, quello della foresta. Questo ovviamente ci porta a trovarci d’accordo sulla bellezza dell’album e sull’inutilità artistica dei singoli. Con la storia delle ambientazioni da videogioco, in quel momento penso quanto George O’Connor, che aveva iniziato la chiacchierata quasi intimidito e senza molto da dire, sia invece una sorta di vero e divertito visionario. Idee chiare, senza alcuna etichetta, che sia thrash metal, elettronica o divertentismo, lui fa quel che gli pare con la sola idea di voler catturare l’attenzione del pubblico – tramite buona tecnica musicale, evidenti abilità nella scrittura, e consapevolezza dei propri mezzi. Sempre divertendosi, commettendo errori che nessuno in fin dei conti può notare, con canzoni brevi e sparate a ottanta miglia all’ora.

Appena dopo la loro sorprendente performance li intercetto nel backstage: Alasdair, il chitarrista, incassa i miei complimenti e mi dirotta verso George che per prima cosa apre una scatola che sembra un grosso cartone per pizze e dove dentro ci vi fluttuano cassette e CD della band. Ne pesca fuori un adesivo e me lo regala e ora possiamo parlare, quindi. Era chiaramente ancora su di giri della sua stessa esibizione, meritatissimo. Poi, quando lo rincontro dopo circa una settimana, lo ritrovo modesto e tranquillo nei primi minuti per poi lasciarsi andare e non fare altro che tirare fuori semplici perle di saggezza che sembrano essere il collante a questo suo piccolo universo musicale. Universo di cui adora onestamente parlarne ma, come succede spesso comprensibilmente per chi “ci prova”, rimane sorpreso quando qualcuno è davvero interessato a sapere cosa c’è dietro, e dentro. Dopo due ore scarse e al pub della stazione di Waterloo, ci congediamo e George ci tiene a sottolineare di quanto sia stato bello poter parlare di musica che, per quanto banale possa sembrare, a me rivela la necessità di artisti come lui di continuare ad avere spazio e orecchie a disposizione, per il bene della musica tutta e di visionari candelotti di dinamite come gli Sugar Darling.

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