Prendete una città. Nello specifico siamo a Milano, ma potrebbe essere un qualsiasi grande agglomerato urbano. È inverno e nella tarda ora di punta l’umidità inizia a sollevarsi, mentre chiunque indaffarato torna a casa, svolge commissioni o corre per fare qualsiasi cosa debba fare. Perchè tutto è vivo e la vita di tutti i giorni, nonostante possa riservare belle sorprese, non è semplice. Quindi ci muoviamo da un punto all’altro, chi con questioni relazionali irrisolte, chi con il peso di un lavoro che non lo soddisfa, chi in cerca del proprio posto nel mondo. Ma questa serata è diversa. Mentre camminiamo – come tutti – con il nostro fardello quotidiano sulle spalle, ci dirigiamo verso l’Alcatraz – insieme a qualche altro migliaio di persone – sapendo in anticipo che potrebbe essere la serata giusta per appoggiare per un po’ a terra il nostro carico emotivo e tornare ad essere umani.

Tutto è vivo.

Così recita il titolo dell’ultimo, magnifico, album degli Slowdive e, nonostante tutto, come dare torto alla band di Reading? Loro, maestri supremi nell’intreccio di rumore e delicatezza, tempesta e poesia. Loro, poco e male considerati quando, oltre 30 anni fa, hanno dato vita a una corrente musicale che ribolle di emotività e vita e che solo dopo molto tempo hanno raccolto i frutti e la giusta considerazione per quanto fatto. Entriamo quindi all’Alcatraz con un vortice in petto, con la quotidianità che inizia a venire sovrastata dall’emotività di quello che stiamo per provare e notiamo un locale colmo oltre ogni limite. Ci guardiamo intorno e vediamo persone di ogni età e genere, uguali nella loro diversità, pronte a ridere e piangere, pronte a vivere.

Sul palco stanno suonando i Pale Blue Eyes, che riescono in qualche modo a farci dimenticare temporaneamente quello a cui stiamo per assistere, ci portano nel loro mondo musicale, fatto sì di shoegaze, ma anche di accelerazioni moderne, che vanno a intrecciarsi perfettamente con le atmosfere dreamy d’Oltremanica che tutti amiamo. Forse la loro esibizione dura troppo poco o forse sono loro che riescono a trasportarci in uno stato di beatitudine dissociativa, sta di fatto che sembrano passati una manciata di minuti quando la band saluta dopo aver posato gli strumenti.

SlowdiveBand

Al contrario, durante l’attesa per gli Slowdive il tempo sembra davvero rallentare, fino a quando le luci si spengono, i cinque salgono sul palco, veniamo dolcemente circondati dalle note di “shanty” e possiamo appoggiare quel fardello emotivo, che ci ancora al terreno tenendoci le spalle curve, possiamo finalmente sollevarci in volo, sostenuti da note che si staccano dagli strumenti e si librano nell’aria trasformandosi in un balsamo per le nostre anime.

Tolta la visita della scorsa estate all’Ypsigrock, erano sei anni che gli Slowdive non passavano alle nostre latitudini e l’affetto smisurato per la leggendaria band inglese è ben percepibile. Rachel Goswell, emozionata e con il volto sempre sorridente, incorniciato nel suo caschetto bicolor, ringrazia ad ogni brano i fan e si trasforma nel simbolo della band. Canta melodie astratte, accompagnata da Neil Halstead in un intreccio vocale alieno, ma perfettamente riconoscibile e sviluppa armonie sinuose sulle sue tastiere. Ma soprattutto ci rimette in sesto grazie alle meravigliose e lancinanti distorsioni della sua chitarra, che si unisce a quelle di Halstead e Savill, andando a formare uno strato impenetrabile tendente al noise, che da più di 30 anni decine di band cercano di riprodurre, senza mai riuscire ad avvicinarsi davvero a questa formula così semplice e perfetta, la cui spina dorsale è una sezione ritmica contemporaneamente riconoscibile e amalgamata al resto.

Gli Slowdive suonano diversi brani da “everything is alive”, dando però la precedenza al capolavoro “Souvlaki” e senza disdegnare anche gli altri lavori più recenti. E anche se a brani come “kisses” (interrotta per il mancamento di un fan e poi risuonata interamente), “Souvlaki Space Station” e “When The Sun Hits” vengono riservati veri e propri boati, ci rendiamo conto che la band potrebbe decidere di suonare qualsiasi pezzo, senza che il nostro viaggio all’interno di noi stessi possa essere interrotto.

Dopo la cover di “Golden Hair” di Syd Barrett, uscire dall’Alcatraz diventa quasi un’impresa, vista la quantità di individui presenti. Ma va benissimo così, a nessuno sembra dare fastidio. C’è chi ride, chi si abbraccia, chi ha gli occhi gonfi e chi non ha ancora finito le lacrime e quindi si asciuga le ultime. Piano piano usciamo, pronti a tornare alla quotidianità. Le spalle sono più dritte, ci sentiamo più leggeri, come se stessimo fluttuando a qualche centimetro da terra. Abbiamo ripreso il nostro fardello sì, ma ora è più leggero, più semplice da portare e da gestire. Questo ci dà fiducia, nonostante tutto.

Tutto è vivo. E gli Slowdive sono vita.

Setlist

shanty
Star Roving
Catch the Breeze
skin in the game
Crazy for You
Souvlaki Space Station
chained to a cloud
Slomo
kisses
Alison
When the Sun Hits
40 Days
Sugar for the Pill
Dagger
Golden Hair (Syd Barrett cover)

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