Magnum
Sacred Blood "Divine" Lies

2016, SPV
Hard Rock

Una autentica macchina da dischi che supera sé stessa.
Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 22/02/16

Quanti sono sessantotto anni? Cosa rappresentano? Cosa è possibile fare ancora a quella veneranda età? Si può fare rock ad alti livelli, bighellonare in giro per il mondo da un palco all'altro e sfornare dischi come se fosse la cosa più naturale al mondo. Parola di Bob Catley e Tony Clarkin, rispettivamente voce e chitarra dei Magnum, più che mai intenzionati a tampinare il più famoso duo Jagger/Richards per longevità e audacia. A differenza di questi ultimi però, i nonnetti di Birmingham non hanno perso la voglia di sfornare release di altissima qualità. Il fatto non stupisce, se si considera che Tony Clarkin è solito iniziare a buttare giù idee per un disco appena dopo la pubblicazione di quello precedente. L'ennesimo prodotto di questa autentica macchina per comporre canzoni  porta il titolo di "Sacred Blood "Divine" Lies", capitolo numero diciotto e ottavo disco in quattordici anni di sodalizio con l'etichetta SPV. Un legame di lunga data che produce dischi su dischi, passano le generazioni ma l'approccio alla materia non è cambiato: non c'è precarietà, nè digitale, nè tour celebrativi, potranno anche sembrare antistorici i Magnum ma ci tengono a non apparire nostalgici e a dire la loro con i piedi ben piantati nel presente. Una saga che non accenna a perdere colpi ma che anzi a questo giro, pur senza un motivo particolare, acquista un sapore ancora più speciale. Non aspettatevi l'impossibile, i Magnum di oggi sono quelli che già conoscete, il processo compositivo e lo stile non sono il risultato di strani colpi di testa: le trame disegnate dagli inglesi sono talmente semplici da sembrare talvolta persino banali, pezzi che si lavorano lentamente attraverso i soliti circolari riff di chitarra e la sensualità di un Bob Catley che incanta ovunque lo metti. C'è un sound che incastra alla perfezione tutti i pezzi del puzzle di cui sopra, e che incorona come vincitore l'eterno outsider Mark Barnway: "Sacred Blood" è il meritato trionfo delle suo lavoro alle tastiere e della sua presenza discreta ma puntuale, dal break di "Don't Cry Baby" agli accordi portanti di "Crazy Old Mothers". Il lirismo di "Your Dream Won't Die" e "A Forgotten Conversation" sintetizzano la classe di chi sa essere quadrato ("Gipsy Queen"), incalzante ("Quiet Rhapsody") mischiando queste caratteristiche alla confidenzialità tipica del blues, senza mai lasciare per strada le emozioni. La punta di diamante di questo piccolo capolavoro è la già citata e conclusiva "Don't Cry Baby", che può persino permettersi di partire su una base di elettronica per poi spiegarsi in tutta la sua bellezza. Date loro una chance se non lo avete fatto, prima che il tempo ce li porti via.




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