I am filth, born of shit,
And I am beloved of flies

Curiosa figura retorica esposta, spesso e volentieri, a sviluppi eccentrici, se non addirittura bizzarri, il poliptoto consiste nel ripetere una medesima parola all’interno di una frase o di un verso, assegnandole, però, una diversa funzione sintattica. Amare l’amore potrebbe rappresentare l’esempio perfetto sia per i novizi della metrica italiana che per i cuori flagellati dalle frecce di Cupido, eppure, al fine di incorniciare al meglio la tappa capitolina dell’Unquestionable Blasphemy Tour 2024, avrebbe più logica e senso impiegare la citazione dal Canto XIII dell’Inferno cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse. Quando giunge nel secondo girone del settimo cerchio, dove vengono puniti i suicidi e gli scialacquatori, Dante dapprima pensa che le urla nel bosco provengano da qualcuno nascosto tra gli alberi, successivamente si accorge della natura umana dei tronchi, in cui, racchiuse per contrappasso, le anime pagano le proprie colpe terrene. Ebbene, di fronte alla forza penetrativa dei suoni diffusi da Cryptopsy, Atheist, Almost Dead e Monastery, così capillare da ramificarsi in ogni fenditura nervosa del Traffic Live Club, gruppi e locale quasi davano l’impressione di formare un tutt’uno difficile da distinguere, a maggior ragione viste le emozioni suscitate, capaci di prendere il sopravvento sul raziocinio dell’intelletto. E poi, diciamolo con franchezza, quanto sarebbe stato straordinario, mentre varie tipologie di estremismo si scambiavano lo scettro dell’imperium, sentir cantare della sofferenza di Pier Delle Vigne e del sollazzo delle arpie che ne straziano i secchi sterpi? Parecchio, non esistono dubbi in proposito.

Il sold out, annunciato dalla direzione del locale sui vari canali social a ridosso del principio dello show, si percepisce già al momento dell’apertura delle porte, che, precise in maniera persino fiscale, spalancano le proprie fauci alle 19.30, lasciando purtroppo fuori le mura più di un avventore privo di biglietto. La serata, pur ventosa, non propone temperature particolarmente gelide e questa relativa mitezza climatica, oltre a rendere l’attesa all’uscio non troppo fastidiosa, favorisce un afflusso convinto al banco del merchandising, con le magliette e i vari ammennicoli che vanno letteralmente a ruba. Un’atmosfera, dunque, pregna di entusiasmo e di aspettative, sentimenti pronti entrambi a deflagrare alle 20.00 in punto, malgrado l’inversione dell’ordine d’entrée dei primi due act crei una leggera confusione a una platea che per metà ancora bivacca all’esterno, presa dalle chiacchiere e dallo scintillio degli articoli in vetrina.

Monastery

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Tocca ai Monastery, e non, quindi, agli Almost Dead, battezzare il concerto attraverso un death old school di sostanza, dal tiro corposo ed efficace e che, nell’accordatura grave delle chitarre e, a tratti, per la loro univoca mansione ritmica, palesa qualche lievissima sfumatura nu metal, non comunque così pervasiva da decurtare il radicalismo generale del sound. Il quintetto ungherese, che, al pari di tutte le formazioni impegnate, monta e smonta il proprio set, trascinando avanti e indietro tra la folla strumenti, pedali e amplificatori, mostra delle moli fisiche colossali, tali da ergersi come giganteschi aizzatori del sottopalco, benché, poi, il loro atteggiamento, comunque interattivo, risulti immune da esagerazioni di sorta. La captatio benevolentiae richiesta dalla rilettura asciutta di “Killchain”, cover dai maestri inglesi Bolt Thrower, riesce da subito a cogliere nel segno, coinvolgendo una torma che, nei suoi elementi meno attempati, si scatena in singolari danze tribali con chili di mosh annessi. Il combo, nato nel 1992 e autore di cinque lavori sulla lunga distanza, persiste orgoglioso nel vagare all’interno del sottobosco dell’Europa orientale, architettando, per l’occasione, una scaletta che pesca esclusivamente dagli ultimi dischi in studio, “Divine Damnation” (2022) e “From Blood” (2023). “River Of The Fallen Souls” e “Pulled Into Stake” costituiscono le hit delle serata, tinte di un’oscurità al limite del blackened e, soprattutto la seconda, accattivanti per groove e rapide di melodia che mandano in estasi gli occhi del bassista Szabolcs Szanati e costringendo a sostare in cascina il buon growling à la Corpsegrinder di Roland Kovács, giovane fromboliere delle corde vocali meritorio di superiore visibilità. Una mezzoretta di piacevolissimo e gradito warm up.

Setlist Monastery

Killchain
River Of The Fallen Souls
Faceless Nothing
Pulled Into Stake
Dreadful Thing
Bleed
Divine Damnation

Almost Dead

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Gruppo di San Francisco attivo dal 2002 e soggetto a frequenti rotazioni in seno alla line-up, gli Almost Dead, come nel caso dei colleghi magiari, continuano a trattenersi nella camera del tempo dell’underground, suggendo linfa esistenziale dal mondo thrash/groove di Exhorder, Lamb Of God, Machine Head, Pantera, Sepultura. Il frontman Tony Rolandelli rappresenta sicuramente l’arma migliore a disposizione del gruppo, non certo per delle linee vocali che alternano, in modo scolastico, ringhi rochi e acuti farinelliani, quanto per l’istrionismo della presenza scenica. Un’attitudine hardcore sottolineata dallo scendere un paio di volte dal palco, cantando in mezzo alla massa, gettandosi a terra, sollevando il corpo mentre alcuni giovani uditori gli tastano la pelata zeppa di sudore. Insomma, un campionario che, pantaloni da pescatore compresi, fa molto Phil Anselmo de’ noantri, ispirando simpatia e aumentando il coinvolgimento live di canzoni non sempre a fuoco a livello stilistico. Ciascun pezzo portato on stage proviene dal recente platter “Destruction Is All We Know” (2024), a partire da “Warheads In The Sky”, che abbozza un’intro orchestrale sintetica prima di tramutarsi in una raffica  a tutta velocità, guidata da un Ryan Glick che supplisce con la foga belluina a una tecnica lacunosa. Tecnica che, invece, contraddistingue il chitarrismo di Zach Weed, artefice di un assolo da capogiro nella massiccia “Commandments Of Coercion”, laddove un breakdown dal taglio core al centro della traccia provoca il delirio di una sala ormai piena nella quasi totalità. L’esibizione procede fra iconici stop&go (“Eight Eyes Of Black”), strambe fisime symphonic black (“Within The Ashes”), interminabili slanci melodici (“Where Sinners Cry”), con il singer che, durante la baraonda, confessa, visto anche il cognome, di sentirsi italiano, e lo scatto fotografico finale a suggellare in eterno un’amicizia romano-californiana più forte delle organizzazioni internazionali. Considerate le circostanze, I need to change my fucking lobster!

Setlist Almost Dead

Warheads In The Sky
Commandments Of Coercion
Eight Eyes Black
Within The Ashes
Agent Of Chaos
Selfish Suicide
Where Sinners Cry

Atheist

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Onorando al millesimo la tabella di marcia oraria, alle 22.00 salgono sull’assito gli Atheist, pionieristica entità statunitense che piegò death e screpolature thrash ai dettami del progressive e della fusion, costruendo delle opere nelle quali brutalità e trascendenza costituivano due facce della stessa medaglia. Parliamo all’imperfetto perché, invero, l’ultimo lavoro del combo di Sarasota, Jupiter, risale ormai al 2010; un full-length meno ispirato dei predecessori, tanto che le tracce scelte per il tour appartengono alla triade composta nei ’90, “Piece Of Time” (1990), “Unquestionable Presence” (1991) ed “Elements” (1993). Da quattordici anni a oggi, dunque, figurano soltanto una compilation e un box set a rimpinguare la già scarna discografia di una band che vede il singer ed ex chitarrista Kelly Shaefer reggere il moccolo dei membri originari, sfoggiando una voce che, pur continuando a brillare per vitalità comunicativa, ha fisiologicamente perso parte del timbro corrosivo e ispido di una volta. Restano, integri, però, il suo sorriso, il suo physique du rôle  da esperto entertainer, abile a incitare la calca senza utilizzare toni da energumeno, la sua audacia nello sfoggiare ancora un look da cordiale fricchettone, con il cappellino rovesciato all’indietro invece dell’abituale bandana piratesca e una t-shirt sulla quale campeggia la scritta Tampa, la sua ciarliera passione per la cannabis. E così, quando si accendono i riflettori e le varie “No Truth”, “Mineral”, “Air”, “Fire”, “Mother Man” impreziosiscono la sarabanda, colpisce la perizia attraverso cui i giovani musicisti che accompagnano il vecchio saggio al microfono rifiniscono le complesse partiture dei brani, riservandoci una menzione speciale per Yoav Ruiz-Feingold, virtuoso da brivido delle quattro corde e acceso sobillatore del sottopalco. Un vortice di violenza estrema e finezza jazz, ricco di fraseggi rimbalzanti tra il basso e le asce di Alex Haddad e Jerry Witunsky, opimo di una ridda di cambi di tempo che ammalia e stordisce, passando in pochissimi secondi da 5/4 a 3/4, da 11/8, a 10/8, con il quintetto eccezionale e astuto nel conferire la giusta dimensione live al tutto. In chiusura, “Piece Of Time” scatena un enorme pandemonio, spingendo gli astanti a guardarsi a vicenda negli occhi e annuire in segno di assenso per una prestazione coi controfiocchi, nonostante degli impercettibili brusii di disapprovazione figli di una quantità eccessiva di alcool nelle vene. Peccato per i volumi eccessivamente saturi, una caratteristica dell’intera kermesse che, nel caso specifico dei floridiani, non consente di ammirare appieno le molteplici nuance del loro sound, rendendo, però, un buon servigio all’ugola del frontman. Attendiamo il nuovo album, su!

Setlist Atheist

No Truth
Mineral
On They Slay
Enthralled In Essence
Your Life’s Retribution
Air
An Incarnation’s Dream
The Formative Years
Fire
Water
I Deny
Unquestionable Presence
Mother Man
Piece Of Time

Cryptopsy

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Nonostante della formazione che diede alle stampe meraviglie ineguagliabili resti come unico superstite il mago della batteria Flo Mounier, la line-up dei Cryptopsy è ormai stabile dal 2011, aspetto che ha giovato non poco alla qualità media degli ultimi due lavori, dopo un periodo di appannamento alla cima del quale svetta il pessimo “The Unspoken King” (2008). Osservazioni, analisi, dubbi, capaci sciogliersi nell’attimo in cui il quartetto canadese, avvolto da luci vermiglie, entra superbo in scena, generando quell’esaltazione furibonda che scaturisce al cospetto di un metallo della morte cupo, frastagliato, parossistico, sacrilego, oggi, forse, un filo più ortodosso, ma certo lontanissimo dal concetto di “normalità”. L’epoca portentosa di Lord Worm e Jon Levasseur sembra un lontano ricordo, tuttavia i pezzi scelti non trascurano né “Blapshemy Made Flesh” (1994), presente con un gustoso medley, né, soprattutto, il leggendario “None So Vile” (1996), reso dal vivo attraverso la cinquina “Graves Of The Fathers”, “Crown Of Horns”, “Slit Your Guts”, “Phobophile” e “Orgiastic Disembowelment”, per l’elevazione di un monumento convulso e abnorme, alfa e omega, origine e termine del brutal/technical death. Il singer Matt McGachy tiene botta nell’interpretazione delle piste antiche, forte di una mimica espressiva da divoratore di universi e di un grugnito massiccio, sapientemente intervallato a picchi di acido screaming emesso sulla folla facendo penzolare la lingua verso il lato sinistro della bocca. Il movimento dall’alto in basso delle braccia pare richiamare alternativamente gli sfottò gestuali che si vedono durante le partite di calcio e il desiderio di schiacciare il cranio degli spettatori, mentre alle sue spalle le trame schizofreniche dell’ascia di Christian Donaldson e le visionarie evoluzioni del drumming occhieggiano alle tendenze della modernità nelle canzoni tratte dal nuovo “As Gomorrah Burns”, rilasciato lo scorso settembre. La consegna live di “In Abeyance”, “Lascivious Undivine”, “Flayed The Swine”, cagiona allucinazione e vertigini, evocando immagini di strapiombi inferi e code biforcute che si attorcigliano per emanare sentenze senz’appello, benché il frontman spesso stinga il calore dei vapori diabolici con un eloquio da amico del giaguaro che strappa risolini e approvazione. Il ringraziamento per la splendida giornata trascorsa nella Città Eterna, probabilmente insaporita da un lauto banchetto a base di gricia e coda alla vaccinara, vista l’energia inesauribile dei quattro, suggella una prestazione da applausi, testimonianza della classe che caratterizza i québécois, al netto delle traversie e delle mutazioni. Brindiamo raggianti al reame del blast beat e al goat cult rite!

Setlist Cryptopsy

In Abeyance
Graves Of The Fathers
Lascivious Undivine
Crown Of Horns
Slit Your Guts
Back To The Worms
Detritus (The One They Kept)
Sire Of Sin
Blapshemy Made Flesh Medley
Flayed The Swine
Phobophile
Orgiastic Disembowelment

Alle 24.00 il sipario cala sul rendez-vous prenestino dell’Unquestionable Blasphemy Tour e, mentre le tenebre si approssimano all’alba, gli abitanti della regione Lazio che dormono già da qualche ora si chiederanno l’indomani il motivo per cui anche una notte colma di incubi possa avere l’identico potere salvifico del saluto di Beatrice. Cryptopsy, Athesit, Almost Dead e Monastery, però, non lo negano a nessuno.

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