I feroci e irriverenti professori dell’estremo alle prese con l’inizio del nuovo anno scolastico.

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Belial’s Throne – Forgotten Land Of The Lost Souls (Spread Evil Productions)

Formatisi a Carlow, country town dell’omonima contea, nel 2016, per merito del chitarrista e autore King Of Shadows, i Belial’s Throne potrebbero non aver generato ancora molto in termini di musica, eppure si sono sin da subito distinti come uno dei migliori gruppi underground all’interno della piccola, ma focosa scena black metal irlandese. Il loro EP di debutto, “Pavor Nocturnus” (2020), pubblicato in maniera autonoma, mostrava un metallo nero dalle luminose venature eufoniche, parimenti aggressivo e orecchiabile, capace di suscitare grande attenzione nei riguardi della band da parte di critici ed etichette. A poco più di tre anni dal rilascio di quel disco, il quartetto esordisce sulla lunga distanza con un “Forgotten Land Of The Lost Souls”, patrocinato dalla Spread Evil Productions, che porta a superiori livelli di integrazione i tasselli stilistici già alla base dello scorso mini. Benché la formazione, nel costruire le fondamenta dell’album, prenda in prestito alcune soluzioni compositive che albergano nelle intersezioni dei mondi esplorati da Dissection, Naglfar, Necrophobic e Sacramentum, non si avverte mai la sensazione di trovarsi soltanto nella Svezia della prima metà degli anni ’90, con il paesaggio sonoro in grado di assumere una forma personale, indipendente, moderna. Riff implacabili, una batteria ruggente, melodie che travolgono per emotività e suggestione, l’afflato, anche se blando, delle tradizioni locali, l’influenza dei , e in genere, dell’Europa orientale, un produzione tendente, senza eccessi, al lo-fi: la ricetta giusta per affondare nel baratro della coscienza propria e collettiva. Alla prossima.

Tracklist: “Forgotten Land Of The Lost Souls”, “Void”, “Halls Of Silent Kingdom”

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Criptopsy – As Gomorrah Burns (Nuclear Blast Records)

I Cryptopsy iniziarono la propria storia con un paio di album, “Blasphemy Made Flesh” (1994) e l’iconico “None So Vile” (1996), la cui meravigliosa e densa commistione di brutal e technical death metal li collocò alla medesima altezza di band cardine del settore come Gorguts e Suffocation. Dischi croce e delizia per i canadesi, vista l’impossibilità anche solo di avvicinarne la grandezza, con il risultato che le prove successive, a partire dal comunque buono “Whisper Supremacy” (1998), conobbero un progressivo calo di qualità, raggiungendo, nel pasticcio sperimentale di “The Unspoken King” (2008), il picco più basso a livello di ispirazione e scrittura. Dopo di allora, prima grazie a un discreto full-length omonimo (2012), poi per mezzo di un paio di EP, “The Book Of Suffering – Tome I” e “The Book Of Suffering – Tome II”, diffusi tra il 2015 e il 2018, i nordamericani si sono parzialmente ritrovati, questo nonostante le pesanti assenze del singer Lord Worm e del chitarrista e songwriter Jon Lavasseur. Il trend positivo riscontrato soprattutto nei due mini, si infiltra altresì in “As Gomorrah Burns”, un nuovo full-length che riesce a canalizzare groove e passaggi accattivanti all’interno di un mare magnum di velocità, pesantezza, cambi di tempo, dissonanze e tecnica sopraffina, con Flo Mounier dietro le pelli a ricamare arte in maniera pressoché intellegibile e l’ascia compositiva di Christian Donaldson a intrecciare riff di origine novantiana a texture più attuali. Compromesso testimoniato visivamente dall’artwork di Paolo Giraldi, identico, a parte i colori pastello dello sfondo, alla cover del terzo platter, e che ci restituisce un gruppo quantomeno centrato, benché il passato resti lì, inarrivabile.

Tracklist: “Lascivious Undivine”, “Godless Deceiver”, “Obeisant”

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Manii – Innerst I Mørket (Terratur Possessions)

All’inizio del nuovo millennio, la scena black metal intorno a Trondheim attirò molta attenzione da parte di critici e appassionati, con band come Celestial Bloodshed, Kaosritual, Mare, One Tail One Head, a guidare l’orda nidrosian. Non bisogna dimenticare, però, che durante gli anni ’90, nella medesima città norvegese, erano già attivi i vari Bloodthorn, Keep Of Kalessin, Perished, Thorns, gruppi non esattamente di seconda fascia. Ma a spiccare pensavano soprattutto i Manes, formazione che ci ha regalato gemme di assoluto valore, in particolare il debutto “Under Ein Blodraud Maane” (1999). Dal successore “Vilosophe” (2003) in poi, gli scandinavi esplorarono così nel profondo territori sperimentali e avanguardistici, anche se con risultati di indubbio valore, da allontanarsi quasi definitivamente dall’estremismo di principio carriera.  Tuttavia, l’amore per il metallo nero spinse il polistrumentista e compositore Cerunnus e il vocalist Sargatanas a cambiare il monicker del gruppo in Manii, pubblicando i full-length “Kollaps” (2013) e “Sinnets Irrganger” (2018), con l’EP “Skuggeheimen” nel mezzo: lavori cupi, oppressivi, carichi di disperazione, attraversati da un utilizzo parsimonioso, ma intelligente, dell’elettronica. “Innerst I Mørket” rappresenta il terzo, dannato parto della coppia, assistita in quest’occasione dal batterista V. Einride dei Whoredom Rife, dopo che lo svizzero Bornyhake dei Borgne aveva già ricoperto tale ruolo nel mini del 2015. Malgrado un essere umano dietro le pelli assicuri che la band risulti un po’ meno fredda rispetto a un passato nel quale la drum machine determinava buona parte del loro sound complessivo, gli scandinavi eccellono ancora una volta nel creare un malessere nero come la pece, una sensazione di disagio evocata da un’unica traccia divisa in sei movimenti, con una serie di piccoli intermezzi a corredo. Un platter monumentale in grado, attraverso il continuo contrasto tra sezioni lugubri, minacciose, pessimistiche e passaggi più estatici, di erigere, strato su strato, un’atmosfera mortale insostenibile, eppure emozionante, specimen di un’entità che, a parte la ruvidità degli albori, continua conservare uno stigma unico e singolare.

Tracklist: “Innerst I Mørket”

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Road Pig – Still The Future Is Bleak (Quone City Press)

Anno Domini 2029. La civiltà come la conosciamo si è sgretolata, lasciando dietro di sé una Terra arida e desolata, con varie fazioni in guerra che combattono per accaparrarsi le ultime risorse necessaria alla sopravvivenza. Non si tratta della trama di qualche pellicola perduta di Enzo G. Castellari o Lucio Fulci, né della versione a stelle e strisce del cult movie ceco del 1967 “Konec Srpna V Hotelu Ozón”, ma semplicemente l’ambientazione post-apocalittica, comunque di ispirazione cinematografica, che i Road Pig hanno scelto per il proprio EP di debutto, il letale e ipercinetico “Still The Future Is Bleak”. Il gruppo si concentra su tale concept proclamando, con orgoglio, che l’album, un po’ sulla scia del T-800, giunge dal futuro, per cui arguiamo l’esistenza, a oggi tenuta nascosta da governi complottasti, della macchina del tempo. Scherzi a parte, il quintetto del New Jersey, sinora protagonista di una demo e degli split con Lacking e Last Action, appronta, nell’esordio sulla minuscola label locale Quone City Press, una versione viscerale dei primi Motörhead e dei Voïvod di “Rrröööaaarrr” (1986), grazie a un hardcore punk tossico e corrosivo, innervato di thrash metal e schegge death e che, pur avvincendo con famelica intransigenza, sa anche abbassare i ritmi quando occorre. “D-beat Fury Road Pig” potrebbe davvero fungere da titolo alternativo per il prossimo episodio del franchise di Mad Max, con colonna sonora già bella che pronta.

Tracce consigliate: “Total War”, “Ancient Noise”

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Taake – Et Hav Av Avstand (Dark Essence Records)

L’intera discografia della one man band dei Taake, compresi i tanti EP; possiede un qualità medio-alta che pochi gruppi possono vantare in ambito estremo, eppure l’acme raggiunto dal terzo full-length “Hordalands Doedskvad” (2005) sembra, a tutt’oggi, un picco difficile da eguagliare. Certo, ciò non significa che gli album anteriori e soprattutto quelli successivi siano da cancellare, anzi, la capacità del mastermind Hoest di seguire caparbiamente la propria strada apportando qui e là delle minime variazioni, ha  condotto a dei risultati comunque buoni, se non addirittura ottimi. Il nuovo disco, “Et Hav Av Avstand”, sulla cui copertina troviamo il singer, polistrumentista e compositore di Bergen avvolto per l’occasione da una grossa bandiera, appare il più vicino a “Noregs Vaapen” (2011), principalmente per i parallelismi riscontrabili nel trattamento delle chitarre. Spesso, e a torto, lo stile del solo-project norvegese viene liquidato come un black metal quasi esclusivamente connesso alla tradizione della vecchia scuola dei Fiordi. In questo ottavo lavoro, però, pullulano le suggestioni prog, anche se mai così spinte come nel caso degli Enslaved, con un surplus di influenze classic rock che, a volte, osano anche esplorare luoghi atonali o dissonanti. I soli quattro brani, invece dei tipici sette, ma dalla durata media di dieci minuti, si snodano e fluiscono in modo dinamico, con atmosfere oniriche e a tratti allucinogene a dominarne l’instabile struttura, avviluppando l’ascoltatore in quegli scenari natii gelidi e nevosi sin dagli albori fonte di ispirazione per il musicista norvegese. Sempre diverso, sempre uguale a sé stesso, a questo giro più furiosamente contemplativo che ferocemente inquieto: Ørjan Stedjeberg, a ogni modo, fa ancora centro.

Tracklist: “Denne Forblaaste”, “Ruin Av En Bro”, “Et Uhyre Av En Kniv”

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