Band culto dell’underground abruzzese, i Voina toccano il prezioso step del quarto full-length, chiamato “Kintsugi“. Abbiamo raggiunto telefonicamente Ivo Bucci, frontman e compositore del gruppo di Lanciano, per un’immersione completa all’interno del loro ultimo lavoro, tra emozioni del momento, tematiche attualissime ed una filosofia di vita che permane vivida all’interno della loro musica.
Ciao Ivo e benvenuto su SpazioRock. Come stai? Manca pochissimo per il vostro tour nei club, siete emozionati? Il disco è uscito qualche giorno fa, come sta andando la release?
Ciao a tutti, è un piacere essere qui. Sì, diciamo che siamo in una fase di stallo, ci stiamo preparando per il tour che partirà questo venerdì proprio vicino casa nostra, con la data zero allo Scumm di Pescara, e che continuerà in altri club – potete vedere il calendario e le altre date sulle nostre pagine social. Quindi sì, siamo decisamente in hype. Il disco è uscito da qualche giorno e sta andando benissimo, siamo veramente contenti. “Kintsugi” è un album molto sentito e siamo felici che stia avendo questo bel responso.
Kintsugi è il vostro quarto album e segna un po’ una sorta di ritorno alle origini dopo le sperimentazioni indie pop di “Ipergigante” (2020). Già in “Yoga pt.1” (2022) si era rivisto quel graffio post-hardcore degli esordi (“Adderall”, “Stranger Things”), insomma un’indole prettamente rock che torna in auge in maniera molto forte. È stata una scelta stilistica dettata da esigenze particolari oppure è stato il semplice risultato del vostro naturale flusso musicale che vi ha portato a ritrovare determinate sonorità?
Sicuramente la seconda: hai fatto un sunto molto fedele alla nostra evoluzione ed il punto di rottura coincide proprio con “Ipergigante”, un disco molto diverso, che esplora suoni nuovi e che si distacca un po’ dal nostro passato prevalentemente rock. È un disco a cui teniamo molto e che ci piace un sacco, ma con “Kintsugi” abbiamo cavalcato quella necessità che avevamo di tornare a pestare un po’ di più, a riprendere tematiche più affini ai nostri esordi.
“Kintsugi” prende il nome dall’arte giapponese di riparare i cocci rotti, non coprendo le spaccature, bensì evidenziandole, dando effettivamente una sorta di nuova vita ad un qualcosa che esisteva già e che sembrava perso per sempre. È un po’ la testimonianza della vostra resilienza, della vostra infinita amicizia e passione per questa band che vi porta sempre a risorgere, a continuare strenuamente a fare musica anche quando sembra impossibile andare avanti. Possiamo dire che “Kintsugi”, oltre ad essere il vostro manifesto, sia un vero e proprio inno a tutte quelle piccole band che tentano fino alla fine di emergere dall’underground?
Sicuramente “Kintsugi” può essere interpretato come un inno ai Voina, una sorta di celebrazione di questa band, arrivata fino ad oggi nonostante mille difficoltà. Poi che possa essere una sorta di monito, di spinta per le altre band, io lo spero vivamente, ma non tanto per il fatto di emergere dall’underground. Per noi è quasi un vanto essere “underground”, è nella natura stessa della band, non era (e non sarà mai) nei nostri piani il diventare famosi, anzi, mi spaventa la cosa. Il farlo per lavoro comporta tanti fattori, come il dover sempre mantenere un determinato standard, l’accontentare sempre la fanbase. Invece per me, che amo il mio lavoro – faccio il professore di filosofia e storia – i Voina sono una sorta di via di fuga, un luogo in cui posso mostrare diversi lati di me senza alcun vincolo e senza ingombranti responsabilità.
“Che vita di merda” è il primo singolo estratto dall’album, un mid-tempo roccioso che riesalta quell’ironica rassegnazione che colma la vita semplice di un giovane di periferia. Il 90% dei contenuti musicali di oggi sono ostentazione pura e esagerata, mentre voi celebrate il conto in banca vuoto e tutte le difficoltà quotidiane delle persone comuni, dalle piccole preoccupazioni annegate al bar fino al bombardamento mediatico che fa da contorno a questa, appunto, vita di merda. Quant’è fondamentale l’essere autentici, il raccontare – anche in termini simpaticamente malinconici – le peripezie di un giovane qualsiasi in un music business che, invece, impianta ideali assolutamente fuori contesto e anche dannosi?
Hai centrato perfettamente il senso del pezzo: “Che vita di merda” è una sorta di anthem per il giovane medio, è nata quasi per scherzo perchè c’era questo nostro amico stretto che faceva un lavoro di merda – puliva i cessi – e un giorno ci ritrovammo nel bar in piazzetta a Lanciano – che si chiama “Costa Rica” anche se con la Costa Rica non c’entra nulla [ride, ndr] – e questo ragazzo arriva, tutto rassegnato, e dice davanti a tutti: «Che vita di merda!». Noi scoppiammo tutti a ridere, infatti in quell’affermazione non c’era tanto la delusione, quanto una via di condivisione. Non tutti colgono l’ironia in questo testo – per fortuna tu ci sei riuscito – infatti molti mi dicono «Ivo, ma scrivi sempre canzoni tristi» quando invece quello che scrivo è in gran parte fortemente ironico, basta saperlo cogliere. Paradossalmente, lo stesso “Ipergigante”, pur essendo decisamente più morbido a livello sonoro, aveva temi ben più pesanti e malinconici rispetto a questo album. Noi siamo così, la sincerità è fondamentale, anche perchè in ogni canzone c’è una parte di noi e sarebbe controproducente il mascherare la cosa.
La stessa “Grattacieli” è un inno alle piccole felicità, al godersi quel poco che si ha piuttosto che bramare l’eccesso. La stessa frase «la normalità è il lusso che ci spetta» spiega brevemente la vostra filosofia, un accontentarsi che non sa di arrendevolezza, bensì di completezza, di benessere. Quanto ha influito su questa ideologia il vivere in una piccola cittadina piuttosto che in una metropoli i cui ritmi e ambizioni sono decisamente diversi?
Ha influito tantissimo, veniamo da un piccolo paese di provincia e questo ha decisamente forgiato la nostra filosofia. Non che il termine provincia sia un termine negativo, anzi, noi amiamo vivere qui e amiamo anche questa normalità che celebriamo sul disco.
Torna la celebrazione dell’amore alla vostra maniera: niente carezzine e bacetti, farfalle nello stomaco e testi all’acqua di rose, bensì la visione più terra terra e “scomoda”, per modo di dire, di questo sentimento. Dalle ossa che sbattono mentre si fa schifo nel locale al passarsi il “Mal di Gola” di Kintsugi, le vostre non sono metafore, bensì esempi tangibili di cosa voglia dire amarsi veramente e di cosa lavori sporco alla base di un sentimento così importante e stratificato. Quanto è cambiata – sempre se dovesse essere cambiata – la vostra visione dell’amore adesso che siete cresciuti e avete delle famiglie?
Credo che l’amore sia un sentimento potentissimo, è letteralmente il motore del mondo. Ma non parlo solo dell’amore in una relazione a due, bensì nella sua espressione universale. Noi lo descriviamo nella sua interezza, anche nelle parti più “scomode”. Perchè l’innamoramento è una fase splendida, per carità, ma dura poco. È tutto il contorno che costruisce l’enormità di questo sentimento. Credo che comunque la nostra visione sia cambiata e che questa trasformazione si senta nei testi, perchè se nelle “ossa che sbattono nel locale” il concetto di “noi due contro il mondo” era fine a sé stesso, oggi, sia in “Fortini” che in “Mal di Gola”, questa immagine persiste, ma non è più fine come prima, è come se fosse in funzione di qualcos’altro, una sorta di veicolo per tirare fuori e scoprire altre parti di te.
Altro tema importantissimo che toccate, soprattutto in “Supermercati Cinesi”, è il gap generazionale tra vecchio e nuovo, una critica sociale fortissima che esamina un po’ i paradossi alla base di un’inevitabile ricambio di mentalità, atteggiamenti e comportamenti. «Questo paese è morto, ma si vive bene» l’abbiamo interpretata un po’ come il riassunto perfetto dell’Italia non di oggi, bensì di ogni periodo storico, con i suoi pro e contro che si modificano col passare del tempo senza mai , però, trovare un giusto equilibrio di fondo, quello che permette di vivere senza pregiudizi, senza odio, senza prevalicazioni. C’abbiamo preso?
Direi che c’avete preso. Il concetto principale su cui vorrei soffermarmi è la sbagliata percezione del nostro pessimismo. Dire «questo paese è morto, ma si vive bene», in realtà, è anche una critica ai disfattisti, poichè in fondo, nonostante si parli di crisi da quando siamo nati, sembra comunque che la grande ruota continui a girare. Il nostro paese, in qualche modo, è esemplificativo di questa cosa: l’Italia è vissuta sempre sotto padrone, lo ha sempre bramato un padrone, ma solo per il piacere di rubargli il pranzo sotto il naso. Un paese di individualisti che è sempre stato molto lontano dal concetto di stato e pace sociale, eppure in qualche modo siamo un popolo capace di adattarsi e ridere quasi di tutto. Il disfattismo di molti, il loro predicare la fine di tutto, il peggioramento di ogni singola generazione è solo la paura personale di essere dimenticati. Io lavoro nella scuola e spesso mi ritrovo a dover combattere contro i pregiudizi legati alle nuove generazioni, come se si andasse verso un’inevitabile apocalisse. Considerando che da quando esistono i vecchi ci sono questi discorsi, la nostra specie dovrebbe essersi estinta da un pezzo. In realtà credo che ci sia invece un continuo, seppur lento, miglioramento in molti aspetti della vita di tutti. Questo non significa che non ci siano storture orrende – i femminicidi dell’ultimo anno ne sono la conferma – ma noto una consapevolezza diverse nelle nuove generazioni, che, per esempio, hanno molta meno paura di mettere in discussione dei ruoli preconfezionati che fanno parte di un sistema antico e patriarcale. Non dico che domani saremmo tutti lì ad abbracciare il prossimo e a scambiarci calumè della pace, ma credo che il percorso è in movimento e sarà difficile fermarlo.
“Kintsugi” è un album molto diretto, ruvido, perfetto da portare in live. Avete già in mente quali saranno i cavalli di battaglia da sfoderare sul palco? C’è qualche pezzo che potrebbe diventare una di quelle hit che mai potrebbero mancare in una scaletta dei Voina?
Guarda, proprio qualche giorno fa affrontavo il discorso con gli altri per iniziare a pensare alle probabili scalette del tour: cominciamo ad avere sul groppone quattro album e una manciata di EP, quindi scegliere le canzoni e metterle insieme inizia ad essere meno intuitivo rispetto a prima. Osservando un po’ il disco, ti direi che “Meteorite” potrebbe essere una papabile “hit” per i live, sia perchè è un pezzo bello tirato e veloce, sia perchè comunque ha un ritornello magnetico, quasi da singalong. Diciamo che un po’ tutti e due i singoli estratti si prestano bene per una prossima setlist. Quello che possiamo ammettere con certezza è che i concerti che verranno saranno molto più spinti e “dolorosi”, per modo di dire. Per quanto riguarda il futuro, considerando che non sappiamo se faremo ancora altri tour o altri dischi, non saprei quanti di questi pezzi avranno un posto sicuro nelle setlist.
Avete dichiarato che “Kintsugi”, come ogni altro album dei Voina, potrebbe essere l’ultimo. Questo perchè come band vivete molto il momento e le vicissitudini del presente. Ma se dovessi chiedervi, idealmente, dove vorreste vedere i Voina tra dieci anni, cosa mi rispondereste?
Cavolo, dieci anni sono parecchi. Tieni conto che dieci anni sono passati da quando abbiamo iniziato a fare musica in maniera “seria”, cioè quando abbiamo iniziato a investire qualche soldo per pubblicare i nostri progetti. Nel 2013 abbiamo rilasciato il primo EP, mentre nel 2015 è uscito “Alcol Schifo e Nostalgia”, ai tempi eravamo ancora giovanissimi e in una situazione molto diversa da questa. Ma, ecco, se mi avessero detto che saremmo arrivati fino a qui con tutta la strada che abbiamo fatto, avrei firmato col sangue. Quindi no, non saprei farti una previsione per i prossimi dieci anni, quello che posso dirti, però, è che non vorrei diventare la caricatura di me stesso. La mia paura è quella di non arrivare a capire quando quello che faccio potrebbe diventare una forzatura, un qualcosa che non combacia più con quello che scrivo. Spero di arrivare ad avere qualche anno e qualche chilo in più, qualche capello in meno, ma continuare a costruire un qualcosa che persista nell’avere senso, nonostante lo scorrere del tempo.
Grazie Ivo per questa bella chiacchierata, è stato un piacere. Prima di lasciarci vorresti dire qualcosa ai lettori di SpazioRock? Ciao!
Vorrei dire qualcosa sì, agli ascoltatori, ma anche ai musicisti: prendetevi del tempo per la musica. Siamo in un periodo storico in cui il music business è una corsa a chi arriva prima e uno dei motivi scatenanti sono le piattaforme di streaming come Spotify: questo perchè con tutti quei numeri e quelle visual in bella vista, sembra che le band debbano scannarsi per raggiungere il primato in ascolti. Questo è dannosissimo, soprattutto per le piccole band, che magari mettono una parte importante della propria anima dentro un pezzo, la caricano su Spotify e devono fare i conti, nella maggior parte dei casi, con un impietoso conteggio degli ascolti, Questo distrugge e inibisce un artista. Non nascondo che ad un certo punto delle registrazioni ho pensato: «sai cos’è, io non ce lo metto nemmeno su Spotify ‘sto disco». Non sarà un caso se negli anni ’70 gli album uscivano ogni quattro anni, mentre adesso i countdown sono brutalmente stringenti. L’arte richiede del tempo, prendetevelo tutto. È importante.