1993: il grunge continua a strabordare come un fiume in piena, ormai sparsosi capillarmente da Seattle verso tutto il mondo. Escono “In Utero” e “Vs”, gli Smashing Pumpkins sfondano il mercato con il capolavoro “Siamese Dream” e i Suede, col loro leggendario self-titled, animano un brit pop che, di lì a poco, avrebbe ribaltato le classifiche musicali a livello planetario. È in questo scenario di grandi affermazioni (e di enormi cambiamenti), che, tra le strade di Boston, tre ragazzi con la passione viscerale per la musica, iniziano timidamente a cucire le maglie di una band destinata a diventare un piccolo gioiello del rock alternativo americano.
I Karate sono uno di quei gruppi a sé, inclassificabili per molti aspetti, d’altronde nella mente di Geoff Farina, Gavin McCarthy ed Eamonn Vitt, successivamente rimpiazzato dall’altrettanto fondamentale Jeff Goddard, non vi era la benchè minima intenzione di rientrare musicalmente in cataloghi definiti. I ragazzi del Massachusetts masticavano pane e improvvisazione, tra preponderanti dettami jazz e classic rock che riuscivano a brillare tra i deliziosi schemi dei loro spartiti. Una preparazione tecnica, quindi, devota alla teoria musicale, senza troppi artifici, ma ci troviamo in un periodo cruciale per il rock, e anche i Karate celebrano tale golden age mettendo a disposizione quanto detto prima alle correnti del tempo.
Photo Credits: Numero Group Website
È il 1995 quando il self-titled dei bostoniani li fa affacciare alla scena: un artwork semplice, minimale, come d’altronde è la loro musica, pochi effetti, tanta tecnica. Basta questo per creare un qualcosa di grandioso, e tali sono i pezzi del primo album, seppur racchiudano al loro interno quel retrogusto acerbo dei primi passi. Tantissime le venature in ballo, fragranze emo e sentori slowcore, il jazz che risuona pulsante in ogni traccia. Manca qualcosina, e quel qualcosina viene fuori nei successivi “In Place Of Real Insight” e “The Bed Is In The Ocean”, un dittico di assoluta ed ineluttabile bellezza. I bostoniani toccano un picco musicale difficilmente raggiungibile da altre band del periodo, e pezzi come “New Martini”, “The New Hangout Conditions” o “There Are Ghosts” fanno accapponare la pelle anche a distanza di oltre vent’anni.
Farina è un paroliere sopraffino, di un’intelligenza musicale e lirica assolutamente fuori dalla norma, e con lui i suoi due compañeros (nel frattempo il fondatore Eamonn Vitt ha lasciato la band per motivi personali). Insomma, una triade fenomenale, in un periodo fondamentale. Diversi, seppur ugualmente importanti, sono i successivi step della loro discografia: da “Unsolved” (2000), i Karate lasciano un po’ da parte quegli istinti “ribelli” della prima parte di carriera, per dare sfoggio a quella che era, senza mezzi termini, la loro principale indole, ossia il comporre musica dall’approccio più classico e schematico: pezzi più lunghi, elaborati, di stampo jazzistico, una fusione col rock che guardava ora al prog ed al post-rock, piuttosto che all’emocore ed al post-hardcore. In questo ambito nascono “Some Boots” (2002) e “Pockets” (2004), gli ultimi full-length dei Karate prima dello scioglimento del 2005 a causa di problemi uditivi del frontman.
Photo Credits: Ben Stas/Karate Facebook Page
Si potrebbe parlare per ore, anzi, per mesi della carriera del trio bostoniano, una band fuori dagli schemi, dotata di una sensibilità silenziosa, una sensibilità che riesce a penetrare all’interno del cuore solo se l’ascoltatore ne consegna volontariamente le chiavi: Geoff Farina non ha mai sfondato di prepotenza le anime, ma è sempre stato sulle sue, scrivendo canzoni meravigliose per spiriti infranti. Forse è anche per questo che i Nostri non hanno mai avuto il successo che avrebbero meritato, perchè la loro non è mai stata musica per le masse, ma musica per i pochi che si sarebbero accorti di essa. E in un marasma di rock che bucava le classifiche e che colonizzava le emittenti televisive, c’era ben poco spazio per la musica dei Karate.
Photo Credits: Ben Stas/Karate Facebook Page
Spazio che, invece, sembrano essersi ritagliati a distanza di 17 anni dallo scioglimento: dai primi segnali emersi con la ristampa in vinile dei loro primi tre lavori a cura di Numero Group, fino all’attesissimo annuncio del reunion tour (con incluso Vitt alla seconda chitarra) che, dopo aver toccato le coste americane, è arrivato fino in Italia, terra tanto amata da Geoff Farina – tante le date nel bel paese durante la sua carriera solista. E tale tour, come prevedibile, è stato un assoluto successo: vederli suonare è un’esperienza catartica, intima, come se un grande artista entri nelle vostre case ed inizi a tastare il pianoforte dinanzi a voi, con la passione dei grandi e l’umiltà di chi è sempre rimasto fedele alla propria idea di musica. Pochissime pause, nessun cambio strumentazione, quest’ultima accompagnata dai soli amplificatori e da due miseri pedali per la distorsione e per l’accordatura. Una riscoperta, quella dei Karate, che è forse uno dei lati migliori del periodo pandemico: in molti si sono approcciati alla loro musica durante il lockdown, bagnandosi nella sottile malinconia che i pezzi dei bostoniani esalano, immergendosi nella voce calda di un compositore eccezionale e dalla finezza emotiva ineguagliabile, adagiandosi nella quiete di una musica che sembra provenire da altri tempi.
I Karate ci insegnano che, anche nel 2022, basta veramente poco per scrivere musica di qualità e pregna di emozioni. Ed è forse nel 2022, in un’epoca di autotune, artifizi e basi preregistrate, che l’essenzialità naturale dei Karate ritorna in auge in un ossimoro generazionale. Una stella cadente, che ha quietato il suo bagliore troppo presto, ha riniziato a splendere, in punta di piedi, nella galassia al di sopra delle nostre teste.