Did you hear the distant cry
Calling me back to my sin
Like the one you knew before
Calling me back once again
I nearly, I nearly lost you there
And it’s taken us somewhere
I nearly lost you there
Let’s try to sleep now

Non è facile, all’alba della tragica notizia, parlare della scomparsa di Mark Lanegan, una notizia che ha colpito, come un fulmine a ciel sereno, i suoi fan e il mondo della musica. Questo perché Mark Lanegan era considerato una specie di dio minore, di quel mondo inquadrato dagli schemi della classificazione musicale per generi, per successo, per importanza. Ed è ingiusto perché Lanegan era sicuramente una delle voci più straordinarie di quella generazione che ce ne ha già regalate (e tolte) tante, basti pensare a Kurt Cobain, Layne Staley, Chris Cornell, Eddie Vedder, ma era considerato sempre “dopo” i nomi più importanti, nonostante fosse stato anche lui al centro della scena della Seattle dei primi anni ’90.

Cantante fuori dal comune, songwriter di altissimo livello, Mark Lanegan, 57 anni compiuti a novembre scorso, era davvero un artista a tutto tondo, un genio sregolato, un personaggio di spicco della scena alternativa che ha letteralmente travalicato le decadi, i generi e le vicissitudini.

Fonda gli immortali Screaming Trees a soli 20 anni, nel 1984 a Seattle, quando di grunge non si parla nemmeno lontanamente, e con loro sforna un EP e tre album, prima di arrivare a quell’anno fatidico, il 1991, in cui il grunge irrompe furiosamente nel mondo della musica. Anche gli Screaming Trees si inseriscono in quel flusso facendo uscire “Uncle Anesthesia”, un album appassionato e duro, prodotto dall’amico Chris Cornell e che fa conoscere gli Screaming Trees al grande pubblico. Ma è con il successivo “Sweet Oblivion”, nel 1992, che la band di Seattle raccoglie i maggiori consensi, anche perché la voce di Lanegan si colloca universalmente tra le più belle del genere. Dura, roca, profonda ma capace comunque di modulare le melodie come poche altre, la voce del cantante dai capelli rossi diventa ben presto un marchio di fabbrica per la band e non solo. Già negli stessi anni, Lanegan inizia e coltiva la sua carriera solista: nel 1990 esce “The Winding Sheet”, che contiene “Down In The Dark”, in cui compare Kurt Cobain nei cori e la sua interpretazione di “Where Did You Sleep Last Night”, anche qui in collaborazione con Cobain e con il bassista Krist Novoselic e che i due Nirvana riprenderanno nel loro celebre unplugged del 1994.

Nel 1994 esce invece uno dei capolavori della carriera solista di Lanegan, “Whiskey For The Holy Ghost”. Un disco ispiratissimo, sia per quanto riguarda il songwriting che per la performance vocale del cantante, che impreziosisce con il suo tono baritonale brani che sembrano usciti da un classico disco di musica tradizionale americana.

Swing pendulum
Swing slow
Got no time to call my own
Oh my Lord, don’t you bother me
I’m as tired as a man can be
Oh, I’m as tired as a man can be

Lanegan sembra non fermarsi mai, sfornando un album dietro l’altro per tutti gli anni ’90, sia da solo che con gli Screaming Trees, ma è anche fortemente tormentato dal terribile demone della dipendenza, che lo accompagna da quando era poco più che un ragazzino. Nel 1997 è costretto a ricoverarsi in una clinica per combattere la dipendenza da alcol ed eroina, che l’aveva lasciato in uno stato disastroso e addirittura senza casa. Ma il cantante è capace di rialzarsi, di reagire e di uscire dalla dipendenza, di rimettere insieme i pezzi e di continuare la sua carriera solista: nel 2001 esce “Field Songs”, il quinto album solista, che vede tra i collaboratori Ben Shepard dei Soundgarden e Duff McKagan, anche lui originario di Seattle, e spicca per la dolcezza introspettiva e blues dei suoi brani, tra cui la malinconica e struggente “One Way Street”.

Sono anni importanti di rinascita per Lanegan solista e non solo: non sono più gli Screaming Trees a fargli da supporto, bensì una band californiana molto conosciuta nell’underground ma ancora lontana dal successo più mainstream, i Queens Of The Stone Age. La loro collaborazione si sviluppa in questi anni, così come l’amicizia profonda con il cantante Josh Homme. Nel 2002, Lanegan e i Queens Of The Stone Age in un’incredibile formazione con Dave Grohl dietro le pelli, tirano fuori un disco, “Songs For The Deaf”, che è una vera e propria pietra miliare, imprescindibile per chiunque ami il rock puro e di qualità. La voce di Mark si fonde perfettamente col sound granitico della band e i loro riff ossessivi e implacabili, ma soprattutto con la voce Homme, in un connubio perfetto e irripetibile.

Nonostante una ricaduta nel mondo della dipendenza, Mark Lanegan non si ferma e fa uscire, nel 2004 l’ottimo “Bubblegum”, un album meno blues e dai toni più graffianti e rock, che come al solito è zeppo di collaborazioni eccellenti. Ne è un esempio perfetto il singolo “Hit the city”, cantato insieme a PJ Harvey, ed emblema del disco stesso, con la sua carica oscura di chitarre distorte.

Passeranno quasi 10 anni prima che esca nuovamente un disco solista del cantautore di Seattle ma non sono certamente anni di fermo: dal 2003 al 2011, infatti, Lanegan collabora con l’amico Greg Dulli per il duo Gutter Twins, mentre parallelamente sfornerà ben tre album insieme alla cantante Isobel Campbell, il tutto continuando la sua avventura con i Queens of the Stone Age, almeno per quanto riguarda i dischi in studio.

Una carriera incredibile la sua, costellata di collaborazioni illustri, di musica di altissima qualità e di testi di impareggiabile profondità e delicatezza. Ma non solo: negli ultimi anni Lanegan pubblica ben tre libri, uno dei quali “I Am The Wolf”, interamente dedicato alla spiegazione di alcuni dei suoi testi più belli, insieme ad aneddoti della sua vita e carriera. Ancora più importante il suo memoir “Sing Backwards And Weep”: la prima autobiografia del cantante è un vero e proprio pugno nello stomaco, nel racconto delle sue incredibili e spesso tragiche vicissitudini legate alle dipendenze, ma anche all’amicizia con Kurt Cobain e ai suoi legami con l’intera scena di Seattle.

Fa strano pensare che questo incredibile artista sia sempre stato sottovalutato dal grande pubblico e dal mainstream, ma è sicuramente nel personaggio il suo essere un po’ defilato, riservato, poco avvezzo all’esposizione mediatica.

E fa ancora più strano pensare che anche lui sia andato via, come Kurt, come Layne, come Chris, come Scott. Che le grandi voci del Seattle sound ci stiano piano piano abbandonando. Certo è che oggi il mondo della musica piange un artista gigantesco, un songwriter come ce ne sono pochi e una voce inconfondibilmente unica, che mancherà terribilmente.

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