Control è un’opera incantevole che attraverso la devastazione emotiva di un ragazzo schiude le porte alla sua lucida analisi introspettiva, mettendone in luce il genio e la tremenda fragilità.

In Inghilterra, durante la metà degli anni ’70, i ragazzi cercavano la propria identità ascoltando i vinili dei loro miti di quel periodo, come i Buzzcocks, Sex Pistols e David Bowie: si vestivano e truccavano come loro e ne emulavano le movenze. Qualcuno ci riuscì: a Macclesfield, a pochi chilometri da Manchester, un Ian Curtis, appena ventenne, fondò con altri tre giovani, Peter Hook, Bernard Sumner, Stephen Morris, i Joy Division, band di culto che segnò l’inizio della scena post-punk.

Il fotografo e videomaker Anton Corbijn fa il suo esordio nel cinema, scegliendo di raccontare la storia di Ian Curtis, morto suicida a soli 23 anni. Il titolo del film, Control, fa riferimento alla canzone dedicata alla vita spezzata di una conoscente del leader dei Joy Division (“She’s Lost Control”), ma sembra anche descrivere quell’impossibilità di controllare il proprio corpo scosso dalle crisi epilettiche che fecero cadere il musicista in depressione o la mancanza di controllo nella vita affettiva, divisa tra la moglie sposata troppo giovane e l’amante conosciuta nel backstage di un concerto. Il film si concentra su una fase importante della breve vita di Curtis: quella della crescita e del passaggio verso l’età adulta. Un ragazzo che si ritrova costretto a compiere delle scelte significative che condizionarono per sempre la sua esistenza. Con il suo carattere introverso e solitario, Ian impara cosa vuol dire vivere in un mondo diverso da come lo si era immaginato da piccoli: un mondo vuoto e superficiale che lo marginalizza e lo isola. È nella sua solitudine, però, che risiede qualcosa di affascinante e misterioso, che attira da subito l’attenzione dello spettatore e gli provoca un senso di empatia. Ci si sente vicini alla sua condizione, e si avverte un legame fortissimo durante l’intera visione. In questo la musica ha, chiaramente, un ruolo centrale, ma il rapporto con la narrazione è ribaltato: le canzoni non sono l’unica cosa che conta ma sono funzionali alla storia che viene raccontata; servono cioè a sviluppare il ritratto del protagonista, che nelle note nei testi e nel ballo esprime una parte importante della propria essenza.

Lo sceneggiatore Matt Greenhalgh parte dal libro di Deborah Curtis, moglie del cantante, Touching from a Distance, tracciando una trama lineare in cui rientrano molte delle “storie note” della giovane rockstar: le crisi epilettiche; l’ossessione adolescenziale per David Bowie; il matrimonio conflittuale con Deborah e la travagliata storia d’amore con la giornalista belga Annik Honoré. Corbijn non ci presenta il solito biopic musicale, anche se gli elementi narrativi possono suggerirlo, ma dirige un film che si concentra sul malessere di Curtis. La fotografia in bianco e nero, che domina in Control , accentua tantissimo tutto lo scenario tragico in cui viveva il leader dei Joy Division: infatti, tutti i personaggi risultano essere solo scatole vuote prive di un reale spessore. In tutto ciò una nota di merito va data all’attore protagonista Sam Riley, già abbastanza simile fisicamente a Curtis, che si è calato completamente e magnificamente nel ruolo, cercando di conferire il necessario spessore psicologico a una persona che vive il suo dramma senza saperselo spiegare, che soffre, piange e custodisce in sé stesso un dolore talmente inesplicabile da non poter essere risolto né curato e che, infine, in modo metodico e meticoloso, progetta e realizza senza appello il suo suicidio.

In conclusione Control è un film che riesce in maniera emozionante a rappresentare e descrivere una figura che negli anni è divenuta simbolo di un certa condizione esistenziale, attraverso non solo la sua emblematica immagine ma anche grazie ai suoi testi e a un sound così potente da ammaliare intere generazioni. Una band che per prima si è fatta portavoce di un certo malessere e disagio giovanile, capace di personificare i sentimenti di numerosi ragazzi, che hanno trovato riparo nella loro musica. Ian Curtis era un giovane sensibile ai piaceri più profondi della vita, come può essere una raccolta di poesie o l’ascolto di un bel disco, si lasciava trasportare dalla bellezza più pura che circonda l’uomo ed era capace di cogliere il bello nelle cose, anche se ne soffriva.

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