Ci erano mancati tantissimo Mikael Åkerfeldt e i suoi, che nella Capitale non tornavano da più di 25 anni (l’ultima volta era nel 1996 con i Cradle Of Filth). Una mancanza che lo straordinario concerto del 28 settembre al Teatro Romano di Ostia Antica ha colmato – seppur in parte, data la lunga assenza – regalando al pubblico una performance che difficilmente si potrà dimenticare. Ma andiamo con ordine.

Prima di accedere al teatro, si passeggia all’interno del Parco archeologico di Ostia Antica fra antiche domus, mosaici e lastricati. L’atmosfera, resa ancora ancora più magica dal calar del sole, è un misto di tensione, mistero e contentezza in cui rigorosamente il nero è il colore dominante tra gli avventori. Una volta arrivati, ci si siede tra gradinate antiche più di 2000 anni ad ammirare il paesaggio circostante, gli uni vicini agli altri senza distanziamenti come ai vecchi tempi. Ed è proprio il teatro a giocare un ruolo importante durante la serata: grande abbastanza da ospitare le 4000 persone venute ad assistere all’ultima tappa europea del tour, confortevole a sufficienza da farci sentire a casa. Sono appena scoccate le 21.00 quando gli Opeth colmano il vuoto sul palco e fanno il loro ingresso. Da questo momento in poi pubblico e band diventano una sola entità.

I Cinque sul palco sono la raffigurazione del controllo: non c’è una sbavatura che sfugga alle dita veloci di Martin Mendez al basso, o acciaccatura tralasciata da Fredrik Åkesson alla sei corde, oppure una sincope non azzeccata dal metronomo umano Waltteri Väyrynen. Ma vero protagonista è un Mikael Åkerfeldt (Michele, affettuosamente soprannominato da alcuni presenti) in stato di grazia, maestro nell’alternare growl e pulito, che alla chitarra si cimenta in assoli e riff quasi meglio di un solista. Un quintetto estremamente bilanciato e tecnico, ma soprattutto che ama sorprendere. Momenti di assoluta frenesia vengono interrotti da strumentali estatici in cui è proprio la voce a guidare l’immaginazione dell’ascoltatore. La sensazione è la stessa di quando ci sembra di cadere ma ci accorgiamo che in realtà era solo un sogno. L’approccio è deciso, solido, nulla sfugge all’incredibile padronanza del suono di una band che ha quasi 30 anni di carriera e li dimostra tutti.

L’atmosfera distesa e accogliente permette a Mikael di avere delle vere e proprie conversazioni col pubblico. C’è addirittura chi avanza richieste e viene accontentato da un’improvvisazione fuori scaletta di “Face Of Melinda”. Åkerfeldt è un talento anche nell’intrattenere, con aplomb britannica non si lascia mai sopraffare anche dai fan più esuberanti e al contempo diverte con facezie tipo: “We can’t play longer, we need time to do our drugs”. 

La scaletta comprende almeno un brano estratto dalla maggior parte dei dischi in studio della band, accontentando più o meno tutti, ma non rendendo veramente soddisfatti soprattutto gli affezionati ai grandi classici. Ma ogni pezzo suona incredibilmente bene, anche la più recente “Hjärtat vet vad handen gör” tratta dall’ultimo “In Cauda Venenum”, e totalmente in lingua svedese. Elementi jazz nella ritmica, eleganza compositiva, ricerca del suono e strutture imprevedibili sono quello che rendono la band forse unica nel loro genere, al punto da trascendere il progressive metal. Si potrebbe parlare di art metal nel loro caso. Soprattutto se la prova in studio viene coadiuvata da una performance tale. Pochi giochi di luce, scenografia essenziale. Non serve altro quando si ha il talento di creare un mondo con una canzone e la tecnica di trasportarvi l’ascoltatore all’interno . In definitiva, uno dei migliori concerti dell’anno.

Setlist

Demon of the Fall
Ghost of Perdition
Hjärtat vet vad handen gör
The Leper Affinity
Reverie/Harlequin Forest
Nepenthe
Hope Leaves
The Devil’s Orchard
Face of Melinda
The Lotus Eater
Sorceress
Deliverance

Comments are closed.