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NUOVE USCITERECENSIONI

Pearl Jam – Dark Matter

We used to laugh, we used to sing
We used to dance, we used to believe

A quattro anni dall’ultimo lavoro in studio, sono tornati i Pearl Jam con “Dark Matter”, il loro dodicesimo album in carriera e non è mai facile avvicinarsi a un evento del genere. Ci troviamo davanti, come ovvio, a una band che è ormai tra i mostri sacri della musica, che ha contribuito alla rivoluzione del grunge e da anni porta in alto la bandiera del rock, sempre con fierezza e determinazione. Con una carriera come la loro alle spalle, un disco nuovo, 11 tracce per 48 minuti di musica, é sempre una grande incognita ma una cosa è certa: usare l’approccio del fan del rock scafato che non si aspetta nulla non rende giustizia a “Dark Matter”. Certo, Eddie Vedder e soci non sono più ventenni riottosi, anzi fa quasi specie vederli avvicinarsi ai 60 anni, ma l’essenza che è sempre stata il motore della band, il loro nucleo più recondito appare luminoso nel nuovo lavoro, più che in quelli precedenti.

Già dalle prime, energiche note di “Scared of Fear” è chiaro che i Pearl Jam sono tornati a un rock genuino e più che mai identitario: si é evidentemente lasciato alle spalle quel periodo in cui l’anima di Vedder (e dei suoi lavori solisti) era più preponderante anche nella produzione della band e si torna a un fluire più coeso di musica e voce, a un sound indiscutibilmente in puro stile Pearl Jam. Segue “React,Respond” ed è un altro brano adrenalinico, impreziosito da un Mike McCready ispiratissimo tra riff, assoli e breakdown, e che è praticamente già pronto per infiammare un pubblico live. Non mancano i momenti più morbidi come la successiva “Wreckage”, una ballad sostenuta in cui la voce di Vedder è uno degli elementi preponderanti. La title track “Dark Matter” propone riff possente e un ritmo incalzante su cui poggia una linea vocale quasi urlata, che ricorda echi del passato della band, riveduti e corretti per la versione attuale del quintetto, che però sente ancora dentro quell’energia trascinante che li ha sempre mossi. Ed è proprio questo il filo conduttore, insieme a un songwriting sapiente, come nella successiva, riuscitissima ballad “Won’t Tell”, del nuovo lavoro della band di Seattle: si nota un’ispirazione nuova, più fresca dei lavori precedenti ma allo stesso tempo strettamente connessa alle origini, a quella forza che fa intravedere ancora i ragazzi di un tempo, ancora con qualcosa da dire.

L’unica vera pecca è la produzione un po’ troppo patinata e compressa del produttore Andrew Watt: vengono penalizzati soprattutto basso e batteria, sottraendo la forza motrice che si può chiaramente percepire sia nei pezzi più energici che in quelli più soft, specie per chi conosce bene i Pearl Jam. Mettere le briglie a un duo del calibro di Matt Cameron e Jeff Ament è un po’ come viaggiare su una Ferrari in perenne seconda marcia: ascoltando e riascoltando il disco, è evidente che i brani avranno una riuscita live che renderà convincenti anche i pezzi che appaiono meno incisivi come ad esempio “Upper Hand”, che è un po’ una “Nothing As It Seems” dei giorni nostri, ma che contiene una potenzialità recondita che verrà sicuramente esaltata dalla resa dal vivo. La successiva “Waiting for Stevie” é un brano scritto da Eddie Vedder in studio mentre era letteralmente in attesa del leggendario Stevie Wonder che ha suonato l’armonica in uno dei brani di “Earthling”, ultimo lavoro solista del cantante; è uno degli ultimi brani forti dell’album, in cui nuovamente l’estro di McCready la fa da padrone e si rende protagonista con riff e assoli scatenati, insieme alla seguente, energica “Running” . È infatti nel finale che “Dark Matter” perde un po’ della forza e della freschezza iniziali, con la blanda “Something Special”, la springsteeniana “Got To Give” e la conclusiva “Setting Sun”, che è invece la più vedderiana dell’album e non brilla per spunti creativi se non nel lungo finale con il verso ripetuto “May our days be long until kingdom come/ We can become one last setting sun”.

Tirando le somme, “Dark Matter” è un buon album e rappresenta un cambiamento in positivo rispetto ai lavori precedenti, in particolare “Gigaton”: mostra dei Pearl Jam ovviamente più maturi ma comunque carichi, spinti non dal desiderio di colmare vuoti, ma dalla voglia di dimostrare di avere ancora qualcosa da dire dopo 33 anni di carriera e tantissima acqua passata sotto i ponti. Il che può sembrare ovvio ma non è affatto scontato per una band che potrebbe tranquillamente sedersi sugli allori dei fasti passati e lì rimanere.

Tracklist

01. Scared of Fear
02. React, Respond
03. Wreckage
04. Dark Matter
05. Won’t Tell
06. Upper Hand
07. Waiting For Stevie
08. Running
09. Something Special
10. Got To Give
11. Setting Sun

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