Ciao Kaspar, bentornato a te e ai Volbeat su SpazioRock! Come stai?

Ciao Giulia, bene, grazie. Sto guardando fuori dalla finestra e c’è una sorta di tempesta di neve in questo momento!

Fantastico, quello che ci si aspetta dalla Danimarca direi! Allora, il vostro disco “Servant of the Mind” è uscito da poco, quindi innanzitutto congratulazioni! Come ti senti a riguardo?

Mi sento benissimo al momento. Abbiamo aspettato quasi un anno da quando abbiamo finito di registrare il disco, è stata una lunga attesa. Quando scrivi canzoni nuove e le registri, poi vuoi solo pubblicare, vuoi che le persone le ascoltino, vuoi suonarle dal vivo. Ma questa volta, è passato un anno e mezzo da quando le canzoni sono state scritte e registrate, è stata un’attesa più lunga del solito, quindi si può dire che sia un traguardo ancora più grande il fatto di pubblicare un disco e che le persone possano ascoltarlo.

Volbeat - Servant Of The Mind

Volbeat – Servant Of The Mind

Sono due anni ormai che siamo bloccati dalla pandemia, credo che gli artisti si stiano in un certo senso adeguando a questa condizione, a scrivere e a creare musica in un contesto così diverso e dando al processo creativo e di scrittura, al fatto di pubblicare un disco un valore ancora più grande rispetto al passato. Ho parlato di questa cosa con molti artisti che ho intervistato in questi mesi, penso che la musica abbia accresciuto il proprio valore in questo periodo, perché è stato ciò che ci ha salvati durante i vari lockdown e l’isolamento.

Penso che tutte le arti, il teatro, il cinema, tutto… ora abbiamo capito davvero quanto siano importanti e anche il nostro governo, qui in Danimarca, all’inizio non aveva previsto nessun aiuto per nessun tipo di professionista dello spettacolo, che sia la crew o l’artista. Credo che le persone che non fanno parte dell’industria artistica ora capiscano quanto sia importante avere film, spettacoli di teatro o musica. Penso che molte persone si siano risvegliate e si siano rese conto del supporto che l’arte dà e del valore che ha nelle nostre vite. Abbiamo suonato per 3 settimane negli Stati Uniti un mese fa, e si sentiva che la gente aveva davvero voglia di uscire di casa e andare a un concerto. Credo che tu abbia assolutamente ragione. Le persone hanno davvero capito quanto sia fondamentale la musica.

Come dicevo, questa situazione ha avuto un riflesso anche sul processo creativo degli artisti: alcuni si sono ritrovati completamente distrutti tanto da non riuscire a scrivere, altri hanno incanalato tutto questo nella produzione artistica.

Certo, la pandemia ha cambiato profondamente le cose. Noi abbiamo pubblicato un album nell’agosto 2019, abbiamo fatto un tour di 4 mesi e poi ci siamo fermati. Dovevamo ricominciare a marzo, aprile 2020, e poi abbiamo dovuto cancellare tutti i concerti. Improvvisamente. Mike, però, ha avuto il tempo di immergersi nel processo creativo. Di solito, quando realizziamo un album, scrive principalmente Mike: scrive in tour o durante le pause dal tour, quindi il processo è molto dilatato, si tratta di un anno o anche di più. Ma questa volta ha avuto tutto il tempo, eravamo in pieno lockdown, non potevamo far altro che provare, quindi lui scriveva canzoni nuove e nel giro di 2 o 3 mesi abbiamo messo insieme l’album. È quasi come quando eravamo ragazzini, non ero nella band all’inizio, ma per dire, è ciò che fai quando non hai altro da fare, quando provi 2 o 3 volte al giorno, e vivi solo di quello. È quello che abbiamo fatto in questi mesi: provare, trovarci in sala. L’unica cosa davvero negativa, a parte chiaramente il disastro sanitario, è che Rob era a New York e noi qui in Danimarca e non poteva raggiungerci, non poteva viaggiare. Ci è mancato molto ed è stato strano, ma la pausa è stata davvero positiva per la band e per le nostre famiglie. Siamo privilegiati a poter essere stati a casa, al sicuro. È stata una situazione davvero orribile dal punto di vista sanitario, ma dal punto di vista personale da un certo punto di vista ci ha fatto bene.

Andiamo più a fondo nel nuovo disco ora, “Servant Of The Mind”. Be’, considerando tutto ciò che ci siamo appena detti e quello che abbiamo passato, anche dal punto di vista psicologico, in questi anni, è un titolo che si addice molto a questo contesto. I temi sono molti in questo disco, in che modo questo titolo li racchiude?

Michael ha provato a spiegarmelo, è lui che scrive i testi, e aveva un certo obiettivo e molti dei suoi testi parlando di figure storiche antiche. “Servant Of The Mind significa essere schiavi dei propri pensieri, di come puoi stare bene o male. Pensando negativamente tutto il tempo, puoi buttarti giù mentalmente, ma può succedere anche il contrario. Molti anni fa ho vissuto un periodo in cui, anche se non ci pensavo davvero, vivevo in questo stato emotivo in cui la mia mente era avvolta dalla negatività. È stata mia moglie a farmene davvero accorgere un giorno, del fatto che ero sempre giù, o aggressivo. Da lì ho iniziato a pensare attivamente ogni volta che parlavo con qualcuno, perché il rischio era che la mia mente mi buttasse giù continuamente. Il titolo si riferisce a come puoi anche controllare, fino a un certo punto ovviamente, quello che pensi e come questo influisce sul tuo stato mentale.

Ho pensato a questo ascoltando il disco. Come hai detto alcuni testi parlano di figure leggendarie antiche, o eventi sovrannaturali, ma in su un certo piano sono collegate alla nostra vita di tutti i giorni, alla realtà.

È abbastanza strano perché penso che la musica e molti testi possano avere dell’oscurità, ed è strano perché mentre scrivevamo eravamo in uno stato mentale davvero positivo ed è stato qualcosa che ci ha fatto molto bene. Quindi non riflette lo stato della band, è qualcosa che deve essere letto come una riflessione più generale sulla vita.

Dal punto di vista sonoro ho ritrovato degli elementi chiave dei Volbeat, ma il disco è permeato anche da questa atmosfera oscura, molto affascinante. Come avete approcciato il processo di scrittura della musica invece?

Di solito è così: quando proviamo, Mike porta un paio di riff o anche un’intera canzone. A volte le ha scritte anche la mattina stessa. Penso che sia stato strano questa volta, perché a un certo punto, dei giorni arrivava con delle parti di chitarra molto catchy, punk rock, e il giorno dopo se ne usciva con cose molto pesanti, come “Becoming” o “The Secret Stones”. Credo che rifletta davvero quello che stava succedendo nella sua testa. Ovviamente io e Jon abbiamo provato ad andare dietro a questi stimoli, se era un riff pesante alla Black Sabbath, provavamo a suonare seguendo quello stile, è sempre stato un aspetto bello del suonare nei Volbeat, cioè suonare diversi stili, diversi generi, anche se si tratta della stessa band: un giorno suoni punk rock e il giorno dopo prendi ispirazione da tutt’altro, come i Sabbath.

Foto di Ross Halfin

Avete partecipato al progetto “The Metallica Blacklist”, il mastodontico progetto che celebra il “Black Album” dei Metallica con moltissimi artisti. È stato davvero interessante ascoltare alcune di queste cover. Com’ stato prenderne parte?

È stato un immenso onore. Eravamo in studio e avevamo quasi finito il disco e avevamo del tempo libero. Poi abbiamo ricevuto la chiamata in cui ci facevano questa proposta, in cui ci chiedevano di essere parte di questo tributo. Non eravamo molto sicuri di quale brano scegliere, non volevamo scegliere uno dei singoli più celebri. Abbiamo pensato a quale canzone potessimo rendere nostra. Così abbiamo scelto “Don’t Tread On Me”, e l’abbiamo fatta in un solo giorno. L’abbiamo anche suonata dal vivo qualche volta, il pubblico ha apprezzato, ma i Metallica sono una certezza da questo punto di vista.

Siete stati in tour negli scorsi mesi e avete in programma un tour di promozione di questo disco. Com’è stato tornare sul palco e come andrà il tour futuro?

È stato un po’ spaventoso ritornare sul palco a dire la verità, io e Jon siamo andati in US per fare le prove, ma Michael aveva avuto dei problemi e non poteva venire. Avremmo dovuto provare un paio di giorni con Rob prima degli show, ma non ce l’abbiamo fatta perché Mike non c’era. Al primo concerto, era la prima volta che suonavamo tutti insieme per la prima volta dopo due anni, non avevamo nemmeno provato! Solo io, Jon e Michael, ma senza Rob. Quello è stato davvero terrificante. Ma dopo un paio di canzoni, ovviamente si sentiva che eravamo un po’ arrugginiti, ma poi siamo entrati in sintonia. Avevo paura di non sapere più come si sta sul palco! Il mio primo concerto è stato nel ’95, e da lì non mi è mai successo di stare così tanto tempo senza suonare dal vivo. È un po’ come andare in bicicletta, no? Non scordi mai davvero come si fa. Sali sul palco, c’è tensione, ma poi è solo una cosa che ti fa sentire benissimo! A gennaio andremo negli US con i Ghost per 6 settimane, non vedo l’ora. Mi piacciono davvero molto, soprattutto il loro ultimo album. Hanno delle melodie stupende, questo sound anni ’70, heavy rock, è molto svedese, amo la musica svedese! Non vedo l’ora di suonare con loro. Anche tutto il resto dell’anno sarà pieno di tour e concerti, dovremmo fare più di 100 concerti, andremo in giro per l’Europa con il nostro tour e i festival.

Fantastico Kaspar, speriamo vada tutto al meglio. Ti lascio gli ultimi momenti di questa intervista per lasciare un messaggio a vostri fan italiani e ai nostri lettori.

Ciao SpazioRock! Sono Kaspar dei Volbeat, non vedo l’ora di vedervi da qualche parte in Italia quest’anno. Spero di vedervi presto. Statemi bene!

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