Foto copertina: Lisa Johnson

Los Angeles, 3 marzo 1991. Rodney King è un tassista afroamericano che sta trasportando sul suo mezzo due passeggeri e, in orario notturno, forza un posto di blocco della polizia, che scatta all’inseguimento del taxi. Dopo averlo raggiunto, i due passeggeri vengono arrestati e fatti salire immediatamente su un mezzo di pattuglia, mentre King viene colpito con i taser e, una volta al suolo, si consuma ai suoi danni un’orrenda aggressione, con cinque agenti che lo accerchiano e per diversi minuti continuano a colpirlo con violente manganellate. Il pestaggio viene ripreso da un passante e quattro dei cinque agenti vengono incriminati. Il processo va avanti diversi mesi, finchè il 29 aprile 1992, la giuria proscioglie dalle accuse tutti gli agenti. La sentenza semplicemente inaccettabile dà il via a dei disordini intorno al tribunale, che in breve tempo si allargano ad un vero e proprio stato di guerriglia urbana che comprende tutta Los Angeles e che si fermerà solo cinque giorni dopo, il 4 maggio, dopo l’uccisione di 63 persone e l’arresto di oltre 12000.

Sembra quasi ironico che durante la Rivolta di Los Angeles i Rage Against The Machine fossero in studio a registrare un album che sarebbe stata la perfetta colonna sonora per le sommosse che si stavano svolgendo in città, conseguenza di crimini, soprusi e una condizione sociale che va a favorire pochi in cambio del malessere fisico e mentale di molti. Se il pestaggio di Rodney King è infatti la goccia che fa traboccare il vaso, i quattro hanno le idee chiare da diverso tempo e già un curriculum (da musicisti e da attivisti) di tutto rispetto. Quello che manca però ai Lock Up di Tom Morello o agli Inside Out di Zack De La Rocha, oltre ad una rabbia incontenibile, è l’attrarsi degli opposti, il violento scontro tra mondi diversi, i latrati alternative rock e hardcore punk uniti all’attivismo e al senso di rivolta contenuto nell’hip hop. Ed è proprio dall’esplosione generata da tutti questi elementi che il 3 novembre 1992 vede la luce uno degli album più citati e influenti degli ultimi 30 anni.

Tre decenni. Tanto è passato dalla Rivolta di Los Angeles e dalla pubblicazione di “Rage Against The Machine”. Spesso si dice che la più importante tra le caratteristiche che contraddistinguono un capolavoro è la capacità di frantumare il passare del tempo e di rimanere attuale anche negli anni a venire. E forse non c’è album che nel 2022 incarni questo concetto più dell’esordio dei RATM, sia dal punto di vista tematico che da quello musicale. 30 anni dopo, le durissime denunce contenute in queste 10 molotov valgono ancora più che mai: discriminazione, censura, brutalità, disparità sociale e povertà sono ancora problemi che attanagliano gli Stati Uniti (e il mondo intero) e sembra tristemente scontato fare un parallelo tra l’aggressione a Rodney King e l’omicidio di George Floyd, che, nel 2020, ha generato una settimana di proteste infuocate in tutti gli Stati Uniti, fortunatamente con conseguenze meno gravi di quelle del 1992.

Foto: Lindsay Brice

Sono questi i motivi principali per cui ancora oggi possiamo parlare di un album rivoluzionario, nello spettro più ampio che si possa dare al significato di questa parola. Padre fondatore di un genere che ha ispirato decine e decine di band negli anni a venire e che ancora oggi fatica a passare di moda, “Rage Against The Machine” è un manifesto musicale, politico e sociale che azzera i compromessi e lancia bombe a mano sull’ipocrisia del sistema a stelle e strisce, evidenziando tutte le menzogne e le falsità su cui si basa il Sogno Americano, rappresentato più come un gabbiano morente coperto di petrolio che come un’aquila fiera che vola nel cielo azzurro.

Tutte le problematiche vengono messe nero su bianco e sono magnificamente intrecciate con un’impalcatura musicale che ne amplificano il significato. La sezione ritmica di Tim Commerford e Brad Wilk secca, essenziale e granitica fa da base alle funamboliche evoluzioni di Tom Morello, che fonda uno stile unico fatto di riff tritaossa, feedback e suoni che si fa fatica a credere possano provenire da una chitarra e un amplificatore. A questo proposito fa riflettere il messaggio che i quattro hanno voluto scrivere a chiare lettere alla fine del booklet: “No samples, keyboards or synthesizers used in the making of this recording”, una dichiarazione di autenticità e genuinità, che viene anche ripresa nel testo dell’ultima traccia “Freedom” (“All live, never on a floppy disk”). L’urlo che dà vita alla chiamata alle armi è però la rabbiosa perfomance del poeta di strada Zack De La Rocha, che supera il concetto di rap e di interpretazione del brani, vomitando nel microfono tutto il malessere causato nel contesto in cui la band è cresciuta e vive.

La versatilità del cantante viene fuori maggiormente in pezzi come “Wake Up” e “Bullet In The Head”, in cui si passa da strofe puramente hip hop (intervallate dalle sincopi chitarristiche di Morello) ad esplosioni finali fatte di urla totalmente fuori controllo. Siamo oltre il concetto di tecniche di canto, ci troviamo davanti alla lucida follia di una persona che vuole abbattere lo status quo, senza sentire ragioni nè compromessi.

I Rage Against The Machine si guardano intorno e descrivono una realtà fatta di abuso di potere e brutalità, come sbraitato nella leggendaria “Killing In The Name”, un sistema che impedisce ad una buona fetta di cittadini di migliorare la propria condizione sociale (“Settle For Nothing”) e che preferisce indottrinare piuttosto che spiegare (“Take The Power Back”, “Know Your Enemy”). Ma oltre a denunciare, la band chiama metaforicamente alle armi il popolo: sono tanti i versi che mostrano voglia di ribellione e in certi casi prendono ispirazione dalle figure di attivisti martiri come Malcolm X e Martin Luther King. È proprio la devastante “Wake Up” a chiudersi con una citazione tratta dal discorso del Pastore a Montgomery, che promette fuoco e fiamme (“How long? Not long / ‘Cause what you reap is what you sow”).

Ma la spietata fotografia non si limita ai confini statuinitensi e critica aspramente anche la politica internazionale dello Zio Sam: il video musicale di “Bombtrack” – che apre l’album esemplificando perfettamente il titolo –, mostra supporto per il gruppo rivoluzionario peruviano Sendero Luminoso, mentre la conclusiva “Freedom” è un tributo a Leonard Peltier, attivista per i diritti dei Nativi Americani, a cui è stato dato l’ergastolo per l’omicidio di due agenti dell’FBI dopo un processo in cui sono molti i dubbi e i sospetti circa la fabbricazione di prove e testimonianze irregolari. Ma a questo proposito, l’immagine più iconica di “Rage Against The Machine” è la sconvolgente copertina, una foto scattata al monaco buddista vietnamita Thích Quảng Đức mentre, nella posizione del loto, si dà fuoco per protestare contro le imposizioni religiose e la dittatura perpetrate dal Presidente dell’allora Vietnam del Sud, alleato degli Stati Uniti. Un’istantanea dall’impatto devastante, capace di catturare ed esprimere musica e tematiche di un album immortale.

“Anger is a gift”

Questa è l’iconica frase che viene sussurrata prima del ritornello di “Freedom” ed è ciò che i Rage Against The Machine vogliono comunicare maggiormente con questo esordio leggendario. Il messaggio è chiaro ancora oggi, come era chiaro nel 1992: le cose non vanno bene, incazzatevi e sovvertite l’ordine delle cose. È cambiato qualcosa in questi 30 anni?

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