Bruce Springsteen
Born In The U.S.A.

1984, Columbia Records
Rock

Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 08/08/13

Non vi è decennio del secolo scorso che non sia rimasto nella memoria collettiva per uno slogan, un’immagine o un evento che lo hanno tramandato ai posteri: gli anni ’60 rievocano le immagini di Woodstock e dell’uomo sulla luna, pensi ai ’70 ed ecco i pantaloni a zampa di elefante e la disco music. E’ con gli anni ’80 invece che il pensiero corre inevitabilmente alla bandiera a stelle e strisce. Oltre alla fine della guerra fredda, ai paninari e a Reagan, a questa simbiosi ha indiscutibilmente contribuito Bruce Springsteen con il suo disco più famoso.
 
Born In The U.S.A.” esce il 4 giugno del 1984 e costituisce uno spartiacque nella carriera del Boss. Quel disco era diverso da tutto ciò che lo aveva preceduto, almeno nella forma. E' la nascita del mito, dell’icona di un decennio e di un genere musicale. “Born In The U.S.A.” non è il miglior disco di Springsteen e neppure quello più rappresentativo, è piuttosto un tentativo di cristallizzarne l’immagine, un veicolo per i posteri, il più sicuro, il transfer per l’immortalità e il successo planetario. Un rocker di estrazione popolare che per consacrare il suo status si gioca la carta del disco popolare. Dodici canzoni, dodici potenziali hits. In Italia la springsteenmania deflagrerà in tutta la sua potenza, portandolo per la prima volta a San Siro per un concerto poi definito dallo stesso Springsteen come uno dei suoi migliori dieci in carriera. Impossibile ignorare i risvolti di un fenomeno di massa che assumerà connotati quasi sociologici, come l’associazione del tutto arbitraria fra il look da macho del Boss e l'edonismo dominante, mentre la title track sarà recepita dal pubblico alla stregua di una nuova “Star Spangled Banner” (e quindi fraintesa), per divenire poi oggetto di strumentalizzazioni politiche da parte del Presidente Reagan, che la userà come spot per la propria campagna elettorale. Al pari del precedente “Nebraska”, i personaggi raccontati su “Born In The U.S.A.” sono il ritratto di una generazione “nata per correre” ma che si ritrova sconfitta e disillusa. A differenziarlo è lo stile, là crudo, acustico e asciutto, qui elettrico, squillante e potente. Sarà proprio la dirompente solarità di questi brani il trait d’union con la spensieratezza degli anni ’80, un collegamento che all’epoca è parso del tutto naturale ma, ad una conoscenza approfondita dell’universo springsteeniano, stride e non poco.
 
Forse è questo il motivo per cui “Born In The U.S.A.” non è amato dai fans della prima ora, ma al di là di ciò i fatti raccontano un disco che regala momenti di grande spessore a dispetto dell’apparente leggerezza. Un disco livellato verso l’alto dove i momenti salienti sono una questione puramente soggettiva: citiamo “I’m Goin’ Down” e “Bobby Jean” e l'erotismo di “I’m On Fire”, ma sarebbe un peccato ignorare la carica emotiva della title track e di "Cover Me", in cui il Boss mostra un impeto quasi hard rock. I sintetizzatori sacrilegi di “Dancing In The Dark”, primo singolo del Boss a raggiungere la vetta delle classifiche, donano a “Downbound Train” e “My Hometown” un’atmosfera quasi mistica, sfatando quel vecchio assunto per cui gli artisti restano miti solo se cristallizzati nel sound che li ha resi famosi.
 
Nessuno stravolgimento stilistico in “Born In The U.S.A.”; tanto per fare un paragone, esso rappresenta per il Boss quello che “Hysteria” è stato per i Def Leppard, ossia il tentativo di raccontare le stesse storie con un linguaggio accattivante. Il risultato, oltre a quelli ben noti in termini economici (trenta milioni di copie vendute, sette singoli estratti), sarà un cambiamento radicale nell’immagine del Boss, o meglio di come il mondo avrebbe visto il Boss da lì in avanti. Di certo costituisce un capitolo a sé nella sua sterminata discografia. Piuttosto che rifugiarsi nel porto sicuro di un nuovo “Born In The U.S.A.” successivamente Springsteen si chiuderà in se stesso, dando vita all’ottimo (e incompreso) “Tunnel Of Love”. Ma questa è un’altra storia.




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