Bruce Springsteen
Western Stars

2019, Sony Music
Pop Rock

Il Boss torna a raccontarci l'America come solo lui sa fare
Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 25/07/19

"Western Stars" è il primo disco totalmente inedito del Boss da un po' di anni a questa parte e forse per questo, il più sentito ed emotivo di questa ultima parte di carriera, lontano anni luce dal preconfezionato "High Hopes", dal pop moderno di "Working On a Dream" e dal pur discreto "Wrecking Ball". Bisogna tornare a quel "Devils & Dust" del 2005 per ricongiungersi allo Springsteen idealmente più vicino, solitario, acustico e senza la sua adorata E Street Band. Per festeggiare i suoi settant'anni Springsteen chiude idealmente il cerchio ricongiungendosi alle proprie origini e alla colonna sonora della sua giovinezza. La scena dei cantautori cantautori californiani anni '50, oltre a Burt Bacharach, Roy Orbison e Glenn Campbell, eccole le stelle dell'ovest citate nel titolo, un vero e proprio viaggio nel tempo, ma non solo, "Western Stars" è prima di tutto un viaggio in quell' America profonda più volte celebrata nel corso della sua carriera: autostoppisti, attori, cantautori, stuntman, un'autentica antologia di personaggi in cerca di autore, fedele ritratto di quella parte di paese che non ce l'ha fatta o che ha assaporato il successo soltanto per un momento. "Le mappe non significano molto per me, io seguo il vento e le stagioni"sentenzia il Boss per mezzo dell'autostoppista raccontato nella prima traccia. "Sono un vagabondo baby, vado di città in città, e quando la campana suona la mezzanotte, le mie ruote fischiano lungo l'autostrada, girando all'infinito"

Non c'è retorica commiserazione, né vaga denuncia sociale buona per tutte le stagioni (anche di questi tempi ce ne sarebbe motivo ...), piuttosto un piacevole alternanza di eroi solitari, scorci di intimità e ritratti di gente comune: gli arrangiamenti sono del tutto acustici, asciutti, dominati dalla steel guitar e da inserti di archi che mettono i brividi, come nel caso di "Drive Fast" e "There Goes My Miracle". Il tono brioso di "Sleepy Joe's Cafè" suona come una sveglia e farà la felicità delle scuole di ballo country, così come la conclusiva "Moonlight Motel" spezzerà i cuori solitari abbandonati sulle statali ai margini della contea. "There Goes My Miracle", gustoso singolo di punta, è la classica situazione dello Springsteen che gioca a fare il Roy Orbison: ne esce un pezzo di gran classe, meno piacione di "Girls In Their Summer Clothes" (altro tentativo di tributare l'autore di "Pretty Woman") ma strutturato in modo esemplare e imprevedibile. "Sundown" con la sua sintesi di country, deserto, archi, pianoforte potrebbe essere uscito dal primo disco di Neil Young, "scivolo di bar in bar, in questa città solitaria, e mentre i locali si riempiono di innamorati, io resto col tuo ricordo, all'imbrunire". A rappresentare la declinazione romantica di tutto questo c'è una poetica di luoghi ancora esotici e lontani, Tucson, Nashville, San Bernardino e il deserto alle sue spalle, l'autostrada e la frontiera, il grande mito di luoghi sconfinati in cui l'umanità si perde e si ritrova presi dai grandi romanzi americani firmati Kerouac, Steinbeck e Cormac McCarthy.

"Western Stars" compensa con la sincerità un'ispirazione che per forza di cose non può essere quella di "Born To Run"; un disco di Springsteen però è sempre una lezione di stile e contenuti, una fotografia esemplare di quello che passa per la testa di un uomo che è capace di rappresentare l'America e i suoi stati d'animo come pochi altri. Libero, come i cavalli selvaggi di Cormac McCarthy, affascinante come l'epopea dell'America, della sua gente e delle sue strade, emozionante come solo lui sa essere. Questo è Bruce Springsteen, questo è "Western Stars": non sarà il disco dell'estate, ma un buon disco per l'estate sì, ed è abbastanza.




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