Articolo a cura di Isadora Troiano e Lorenzo Valè
Foto copertina: Danny Clinch

Nominare Eddie Vedder è, ormai, come nominare uno qualsiasi dei mostri sacri della storia della musica, come dire Robert Plant o Bruce Springsteen. Sì, perché la tanto amata “vecchia guardia” si fa sempre più ricca di nomi che, fino a pochi decenni fa, rappresentavano la nuova ondata del rock, quella rivoluzionaria, mentre ora sono semplicemente diventati leggenda. E il buon caro Edward Louis Severson III nella leggenda c’è entrato di diritto – con i Pearl Jam e non solo – grazie a una voce potente ed emozionante, inimitabile e sempre riconoscibile, un vero e proprio unicum.

Guidando suo malgrado la rivoluzione del grunge, Eddie Vedder si è inserito immediatamente nel contesto musicale della Seattle degli anni Novanta, la cui caratteristica principale, insieme al sound, era proprio quella di avere delle voci di una qualità e di una profondità irripetibili: Kurt Cobain, Layne Staley o Chris Cornell giusto per fare dei nomi. Questa particolarità ha dato ancora più spessore al Seattle Sound, e Vedder è sicuramente tra i maggiori artefici di uno dei cambiamenti epocali della storia della musica. Una voce calda, sicura, ricca di sfaccettature, un talento naturale ma coltivato con passione e impegno, che ha assicurato il successo ai Pearl Jam e non solo. Ma si sa che Vedder è un genio dalle mille forme, un artista a tuttotondo e, nel corso della carriera, ha anche dato prova della sua maestria senza i compagni di una vita. E infatti ci troviamo a pochi giorni dall’uscita, dopo ben 12 anni, del suo terzo lavoro full lenght da solista, “Earthling”, che si prospetta davvero promettente considerati i singoli rilasciati negli scorsi mesi, “Brother The Cloud” e “The Haves”.  Ma quante volte Eddie Vedder ci ha fatto emozionare? Ecco un excursus – non una classifica, sia chiaro – dei suoi brani più belli senza i Pearl Jam.

No Ceiling

Parlando della carriera di Eddie Vedder non si può non citare la sua passione per le colonne sonore, che lo accompagna dal 1995 quando collaborò a due brani per il film “Dead Man Walking”, nel cui cast figurava l’amico Sean Penn. È infatti l’amicizia con l’attore che lo porterà a comporre l’intera colonna sonora per il film “Into The Wild”, la storia travagliata di Christopher McCandless, un ragazzo che si spinse nelle terre più estreme degli Stati Uniti in cerca della libertà ma anche del suo vero io. No Ceiling è il secondo brano del disco che accompagna questo film e rappresenta idealmente l’inizio dell’avventura del giovane, il cui mondo è ormai privo di “soffitto” da cui il titolo del pezzo. Le note del banjo accompagnano questa breve ballata malinconica e dolce, mentre la voce avvolgente di Vedder racconta della scoperta delle infinite possibilità date dalla liberazione dalle convenzioni della società. Una delle piccole perle di un album che è davvero un gioiello.

Light Today

Cupezza e tensione vanno a braccetto in questo brano che si regge tutto su una scala cromatica minore, capace di portarci negli antri oscuri del Vedder più intimista e criptico. Ci vengono quasi alla mente i desideri di luce dei prigionieri nel Mito della Caverna Platonico. Un desiderio di liberazione al quale non possiamo più rinunciare e che deve avvenire “today”, come non si risparmia dal ripeterci il cantante.

I Believe In Miracles

Nel 2003, poco tempo dopo la scomparsa di Joey e Dee Dee Ramone, il chitarrista Johnny prese in mano il progetto di un disco tributo, coaudiuvato da Rob Zombie, a cui si unirono, uno dopo l’altro artisti del calibro di Red Hot Chili Peppers, Metallica, Green Day, U2, Kiss e tantissimi altri grandi nomi, tra cui proprio Eddie Vedder. Il cantante è stato un grande appassionato e amico dei Ramones, tanto da introdurli nella Rock N Roll Hall Of Fame. Così, insieme agli Zeke, firma una cover di “I Believe in Miracles”, di grande impatto, piena di energia, che rende perfettamente giustizia all’originale ma aggiunge quel tocco in più che solo una performance vocale come la sua può dare.

Hard Sun

Una canzone di disperato amore, amore universale tra uomo e natura. Originalmente composta da Gordon Peterson, cantautore di Seattle, con l’interpretazione di Vedder si sprigionano tutte le potenzialità mistiche di una linea vocale che segue l’incessante procedere di questa marcia semiacustica condita di chitarre lontane e percussioni da guerra. Un crescendo finale che si insinua come ritmo vitale e inevitabile.

Sleeping By Myself

Ukulele Songs” è il secondo album solista di Eddie Vedder, uscito nel 2011, e vuole essere un tributo alla musica americana tradizionale, fatta da pochi strumenti e voce. Tra i vari brani inclusi, “Sleeping By Myself” rappresenta uno dei momenti più raccolti e intimisti del disco, con un Vedder particolarmente ispirato a livello vocale e un testo struggente che racconta una rottura amorosa. Anche in questo caso abbiamo un brano breve, neanche due minuti di durata, ma che racchiude tutta l’essenza del lato più nascosto e intimo del cantante dei Pearl Jam. Il susseguirsi ritmato degli accordi all’ukulele accompagna la storia di un cuore infranto, delicatamente tratteggiata dalla voce sempre espressiva e intensa di Vedder. Il brano funziona talmente bene che è stato riarrangiato e riproposto dai Pearl Jam nell’album del 2013 “Lightening Bolt”, su volere dello storico produttore della band Brendan O’Brien, segno della forte connessione del songwriting di Eddie Vedder da solo con il suo apporto alla compagine di Seattle.

 Toulumne

Sempre dalla colonna sonora di “Into The Wild”, troviamo questa piccola gemma che ci mostra il lato strumentale del processo compositivo di Vedder solista. Il brano, di neanche un minuto di durata, è fatto di semplici accordi di do, re e fa, impreziositi da un delicato arpeggio che si muove fluido e fa da connessione tra due brani molto intensi dell’album, la struggente “Long Nights” e la più solare, è il caso di dirlo, “Hard Sun”. Si tratta di un intermezzo breve ma efficace nello stemperare il pathos della canzone precedente e aprire alla positività di quella successiva. È inoltre da considerarsi come un tutt’uno con lo svolgimento del film omonimo per cui rende benissimo l’idea degli alti e bassi dell’avventura di Christopher McCandless nella ricerca di se stesso nel cuore più selvaggio dell’America. Vedder riesce, con la sola chitarra, a trasmettere all’ascoltatore, in poche decine di secondi, le immagini delle sconfinate pianure, delle strade che si srotolano come infiniti serpenti d’asfalto davanti al viaggiatore, dei rocciosi deserti incendiati dal sole e dei paesaggi quasi lunari dell’America più nascosta e profonda, lontana dallo scintillio delle luci e dall’acciaio dei grattacieli.

Out Of Sand

Una chicca un po’ nascosta ai più, ancora da una colonna sonora, questa volta quella per il reboot di Twin Peaks, la serie cult del visionario David Lynch, riportata sugli schermi televisivi nel 2016. Vedder viene coinvolto nel progetto grazie all’amicizia con l’attrice Laura Dern, che interpreta Diane nella serie; al musicista non viene rivelato molto del già criptico sequel di Twin Peaks, solo qualche vaga idea sui temi, per cui Eddie lavora quasi al buio, attenendosi solo alle atmosfere oniriche che da sempre caratterizzano la serie. Ne nasce una struggente ballata in crescendo, fatta di sola chitarra e voce, con un testo immaginifico che si sposa perfettamente col progetto. La particolarità è la registrazione che appare volutamente casalinga, sembra provenire da un’epoca lontana e aggiunge une allure ancora più calzante al tutto. David Lynch stesso venne immediatamente conquistato dal pezzo e non ebbe dubbi nell’includerlo nell’universo di Twin Peaks: nella 16 puntata della serie, infatti, possiamo vedere Vedder, presentato col suo vero nome Edward Louis Severson, eseguire il brano al Bang Bang Bar della mitica Twin Peaks.

Can’t Keep

Il brano che apre “Ukulele Songs” è un concentrato della personalità artistica di Vedder. Uno spaccato limpidissimo di una carriera che l’ha portato dall’esplosività degli anni Novanta ad atmosfere più intime come queste. C’è però, anche in questo scarna e ritmata cavalcata sulle quattro corde, tutta quella spinta intrinseca nell’animo del frontman di Evanston. Sentivate il bisogno di un pezzo Grunge ukulele e voce? Eccovi accontentati.

End Of The Road

Where the sky meets the earth”: con queste parole si evoca una totale accoglienza al destino manifesto che il protagonista di questa incredibile colonna sonora si trova ad affrontare. Un’atmosfera sofferta in un brano con ispirazioni e cadenze proprie dello psych-folk più raffinato, con rimandi agli anni Settanta di John Martyn ed al Van Morrison di “Astral Weeks”. Una piccola gemma per accompagnare i viaggi che solo la musica ci permettere di compiere.

Society

Impossibile non comprendere in questa selezione il brano più celebre del Vedder solista. Scritta da Jerry Hannan, rimane tutt’oggi un inno all’alienazione, all’inadeguatezza in una società viziata dal desiderio e dall’ingordigia. Pubblicato nel 2007, il brano scava a piene mani nelle strutture e nelle sonorità della tradizione americana, svolgendo un ruolo di sostegno e traino a un testo pungente e dissacrante. Una canzone per lasciar andare le cose, mascherata da storia d’amore.

Comments are closed.