So Much for (Tour) Dust. Gioco di parole simpatico, considerato il titolo dell’ultimo disco. Ma se provassimo a prenderlo alla lettera per un momento, forse lo troveremmo ancora più azzeccato. Perché diciamolo chiaro e forte: dopo quasi un decennio di attesa ci aspettavamo una pioggia di polvere stellare. E così non è stato.

Che ci crediamo o no, sono passati davvero 9 anni dall’ultima data dei Fall Out Boy in Italia e nel frattempo il quartetto di Chicago ha pubblicato altri 3 dischi, proseguendo nel proprio cammino verso la musica pop, per fare dietrofront solo a marzo scorso con “So Much (for) Stardust”. Il loro ritorno alle origini è stato accolto molto bene dalla critica, perciò il loro arrivo sul palco del Mediolanum Forum di Milano è atteso da una folla strepitante di teenagers ed ex – questi ultimi a testimoniare che it’s not a phase, come si suol dire all’interno della scena. Alcuni sono venuti perfino coi propri figli, tentando di plasmare una nuova generazione di piccoli emo kids.

Il primo artista ad esibirsi è nothing,nowhere.: classe 1992, Joe Mulherin (questa la sua vera identità) può vantare già da qualche anno un certo seguito online, conquistando consensi dalla scena emo trap e non solo, firmando collaborazioni con i Fall Out Boy stessi ma anche con Sum 41, Underoath e tanti altri. L’artista, insieme ai 3 musicisti che lo accompagnano dal vivo, mostra il lato più ruvido di se stesso, tra i brani molto core del suo ultimo disco “VOID ETERNAL” (2023) e la cover di “One Step Closer” dei Linkin Park. Platea forse un po’ fuori target per Mulherin, ma il valore del suo progetto si è visto eccome.

Siamo in molti a pensare che ora ci potremo rilassare con il pop elettronico dei PVRIS. E invece. La frontwoman – e unico membro rimasto nella lineup ufficiale – Lynn Gunn si trova al centro del palco, armata di chitarra, in mezzo tra Brian MacDonald (basso e tastiere) e Denny Agosto (batteria). In tre ma sembrano trecento. Ciò che in “Evergreen” (2023) sembra composto, ordinato, dal vivo diventa un uragano, le frequenze basse fanno tremare il pubblico ininterrottamente per tre quarti d’ora, ma ovviamente c’è spazio anche per la hit storica del gruppo, “My House”, molto più rock in senso stretto.

PVRIS

Dopo un rapido cambio palco e un piacevolissimo ascolto di “The Middle” dei Jimmy Eat World – che apriranno il tour americano l’anno prossimo – e di “We Didn’t Start the Fire” reinterpretata proprio dai FOB, ecco che tutte le luci si spengono e la voce di Ethan Hawke in “The Pink Seashell” fa da introduzione all’arrivo degli headliners. E con pochi indugi, appena terminata la traccia d’interludio e l’intro orchestrale successiva, i 4 ragazzi-ormai signori dell’Illinois aprono le danze con “Love From the Other Side”. La prima cosa che si nota è proprio che sono passati 9 anni dal nostro ultimo contatto con loro, 9 lunghi anni che si vedono chiaramente sui loro volti. Pete Wentz sfoggia un look ancora molto giovanile, con tanto di tinta platino, ma che non rende i suoi 44 anni meno evidenti. La barba rossiccia di Andy Hurley è contaminata da non pochi peli bianchi, per non parlare dei capelli. Joe Trohman, a un passo dai 40, mostra le prime rughe in volto. Insomma, tutti invecchiano, ma solo pochi con l’età acquisiscono più conoscenza e migliorano se stessi. E non è questo il caso, purtroppo.

Messe da parte le competenze tecniche, per cui non hanno mai brillato particolarmente, e nessuno ha mai preteso che lo facessero, al gruppo manca davvero qualcosa. Un turnista che possa aiutare a far rendere quanto si trova nei dischi? No, ci sono le basi a compensare tutto. Una scenografia accattivante? Assolutamente no, anzi, ne vediamo almeno 4 diverse lungo tutto il concerto. Un pubblico più coinvolto e partecipativo? Tutt’altro. Essendo parte della famigerata Emo Trinity, i FOB non hanno nulla da invidiare nemmeno alle boyband quando si parla di fanbase.

La scaletta è anche pensata molto bene, eliminando ogni traccia del tanto odiato “Mania” (2017) e pescando parecchio invece dai primi dischi. Eppure, tutto pare così superficiale, distaccato. I quattro suonano un brano dopo l’altro, con piccole pause solo per permettere i cambi di sfondo e poche, davvero poche chiacchiere.

Certo, fa piacere sentire quei riff così colorati, gli scream di Wentz in “Calm Before the Storm” e tutti gli acuti di Patrick Stump, alcuni più riusciti (“A Little Less Sixteen Candles, a Little More “Touch Me””), altri meno (“Dead on Arrival”). Alcuni pezzi vengono anche piuttosto bene, come la possente “Heaven Iowa” e la toccante “Save Rock and Roll”, e i brevi accenni alle cover di Journey e Ozzy Osbourne strappano per forza un sorriso. È nelle grandi hit che crescono i dubbi: come mai “This Ain’t a Scene, It’s an Arms Race” o “My Songs Know What You Did in the Dark (Light Em Up)” non suonano piene, ricche, belle come in studio? Dov’è finita la magia?

Tutte queste domande non se le pone il pubblico, soprattutto quello in parterre impegnato a saltare e a cantare per tutti i 100 minuti di performance. Non importa se Stump non spara acuti perfetti o se la batteria di Hurley non spacca i timpani come quella dei PVRIS, la folla esplode ogni volta che riconosce il brano suonato, che sia il successone “Thnks fr th Mmrs” o il classico finale “Saturday”. Non importa nemmeno se non c’è un bis. Alla fine ci sono solo sorrisi e chiacchiere positive della serata. I Fall Out Boy sono riusciti a regalare una bella serata ai propri fan, è solo questo ciò che conta.

Setlist

Love From the Other Side
The Phoenix
Sugar, We’re Goin Down
Uma Thurman
A Little Less Sixteen Candles, a Little More “Touch Me”
Dead on Arrival
Grand Theft Autumn/Where Is Your Boy
Calm Before the Storm
This Ain’t a Scene, It’s an Arms Race
Disloyal Order of Water Buffaloes
Heaven Iowa
G.I.N.A.S.F.S.
Headfirst Slide Into Cooperstown on a Bad Bet
Fake Out
What a Catch, Donnie
Don’t Stop Believin’
Save Rock and Roll
Baby Annihilation
Crazy Train
Dance, Dance
Hold Me Like a Grudge
I Am My Own Muse
My Songs Know What You Did in the Dark (Light Em Up)
Thnks fr th Mmrs
Centuries
Saturday

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