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The Last Man Standing

Lo sanno persino i sassi che le provocazioni a ruota libera di un personaggio controverso come Pino Scotto, spesso e volentieri condite da un linguaggio a dir poco pittoresco, bene o male mirano sempre ai medesimi obiettivi, accendendo, a volte, reazioni social così diffuse da dipanarsi ossessive a mo’ di catena di Sant’Antonio. Tra le numerose affermazioni dell’ex gola dei Vanadium, ne spicca una che rappresenta il suo inossidabile cavallo di battaglia, tirata in ballo principalmente quando il discorso cade sulle ridottissime capacità vocali odierne della quasi totalità dei frontman delle grandi rock band degli anni ’70 e ’80. Dalla lista nera del vergognoso logorio, a parte gli elogi per Robert Plant e qualche tiepido attestato di stima per alcuni eletti, il simpatico procidano cassa, ça va sans dire, sé stesso e il pressoché coetaneo Glenn Hughes, bassista e cantante oggi attivo nella congrega dei figli illustri a nome Black Country Communion, e un tempo membro di formazioni britanniche del calibro e della storia di Trapeze, Deep Purple e Black Sabbath, oltre che protagonista di progetti solisti, di innumerevoli collaborazioni e di militanze di rilievo (The Dead Daisies, California Breed). Un’espunzione su cui non si può non concordare, giustificata dalle performance impeccabili sia su disco sia soprattutto dal vivo di un artista che, malgrado la “tipica” vita di eccessi e le ormai settantatre primavere alle spalle, continua a sollecitare alla grande le proprie corde vocali, riuscendo ancora e miracolosamente a preservare la loro radiosa integrità.

Ogni scusa appare buona, dunque, al fine di suggere la Storia, e l’occasione si concretizza all’Orion Live Club di Ciampino, prima tappa italiana del tour celebrativo per il cinquantesimo anniversario del meraviglioso “Burn”, album attraverso il quale The Voice Of Rock debuttò, insieme a David Coverdale con cui si divise, non senza problemi, il compito al microfono, come membro dei Deep Purple in sostituzione di Roger Glover, mettendo mano compositiva, benché non ufficialmente per ragioni contrattuali, a gran parte del lotto. Nella setlist, però, trovano spazio anche pezzi estrapolati da “Stormbringer” (1974), secondo e ultimo lavoro della Mark III, e “Come Taste The Band” (1975), unico full-length della Mark IV, con il compianto Tommy Bolin all’epoca rimpiazzo momentaneo di Ritchie Blackmore. Un recupero che consente di apprezzare al meglio due platter ritenuti minori nel curriculum del gruppo originario di Hertford: ma quanti hanno effettivamente beneficiato di siffatta manna?

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L’affluenza del pubblico, prevista da sold out, risulterà sì ottima, ma non sufficiente a riempire appieno un locale dalla capienza piuttosto ampia, e questo un po’ stride con l’importanza e l’eccezionalità di un evento del genere, malgrado si tratti, comunque, di uno show che, causa caratteristiche intrinseche, compreso un flavor nostalgico da capelli bianchi, non costituiva un richiamo irresistibile per giovani e giovanissimi. Eppure, la soddisfazione di assistere alla performance di una leggenda vivente, e tutt’altro che incartapecorita, ha rari eguali al mondo, ancorché la defezione, per vaghi motivi di salute, dei King Herd, artefici di un hard rock poderoso e orecchiabile, idoneo, in teoria, a scaldare l’atmosfera, renderà l’attesa oltremodo gravosa.

Dopo un rapido check tecnico a ridosso dall’inizio del live, alle 21.05, il vecchio leone sale on stage già da trionfatore, sommerso dalle grida estatiche di una platea che non sembra credere al delinearsi concreto di una visione pochi attimi prima soltanto onirica. Fisico smilzo, occhiali da sole scuri, le lunghe ciocche auree che ondulano con ordine e disciplina, un vestiario che ci catapulta nella California psichedelica arsa dal sole e dalla cocaina dei Seventies, Hughes domina la scena da demiurgo escapista, uscito indenne da varie ed eterogenee peregrinazioni multidimensionali di successo, discese negli abissi e rigenerazione. Una serata che lo vedrà impennare lo strumento, donare plettri alla torma, assumere diverse pose da rockstar, ringraziare Roma di continuo, allargare la bocca in larghi sorrisi palesando una dentatura così regolare e lattea da suscitare invidia allo Jürgen Klopp di Liverpool, battersi il cuore con il pugno per esprimere gioia e riconoscenza, giungere le mani in preghiera verso l’Altissimo, raccontare (arcinoti) aneddoti del passato, teatralizzare la comunicazione e inserire pause per permettere all’ugola di riposare.

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Ad accompagnarlo sull’assito il prodigioso chitarrista danese e collaboratore di lunga data Søren Andersen, il virtuoso tastierista orange Bob Fridzema e il tenace drummer inglese Ash Sheehan: una formazione, come si dice in questi casi, perfettamente oliata, e che trasuda così tanto vigore ed energia ai brani in scaletta da non far rimpiangere, quantomeno per corrispondenza d’amorosi sensi, le esibizioni della Mark III, di frequente macchiate dall’antagonismo e dalla scarsa lucidità dei due singer allora coinvolti. Nel corso del concerto, Glenn inviterà gli uditori a chiudere gli occhi e a immaginare che a suonare siano John Lord, ricordato più volte insieme a Bolin, e i compagni d’avventura di una volta e, benché certe magie appaiano complesse da realizzare per ovvie ragioni, questa line-up, rispetto alla composizione attuale dei Deep Purple, qualche punticino in più lo guadagna per tecnica e verve. Il set parte con la poderosa e cadenzata “Stormbringer”, title track dell’omonimo lavoro, nel quale esplosero definitivamente le influenze della black music, prosegue attraverso l’hard rock venato di funky di “Might Just Take Your Life” e “Sail Away”, prima che le fluviali improvvisazioni modello California Jam incastonino, fra un solo d’ascia lazyano uno – interminabile – di batteria, l’anima nera di “You Fool No One” e le dodici battute di “High Ball Shooter”. Il torrido e malinconico blues di “Mistreated”, in cui GH ulula “Woman, Oh Woman” mostrando un’urgenza degna di un sermone domenicale recitato a Memphis, l’incedere irresistibile di “Gettin’ Tighter” e l’hammond di “You Keep On Moving”, dispensatore di brividi lungo una schiena funk-soul, precorrono la chiusa “Burn”, impetuosa e dai colori neoclassici, che una torma in visibilio intona all’unisono. Cento minuti scarsi trascorsi, purtroppo, in un istante.

Nel mezzo di acuti e sortite Motown à la Stevie Wonder, Glenn Hughes non tradisce le aspettative, regalando una prova di straordinaria caratura, a conferma delle parole dell’artigianale striscione errante in sala: You Are The Music.

Setlist

Stormbringer
Might Just Take Your Life
Sail Away
You Fool No One/Guitar Solo/Blues/High Ball Shooter/You Fool No One/Drum Solo/You Fool No One
Mistreated
Gettin’ Tighter
You Keep On Moving
Burn

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