Un atteso ritorno, quello dei Periphery in Italia, celebrato da un precoce sold out e da un grandioso show all’Alcatraz di Milano. Poco prima del concerto abbiamo incontrato Misha Mansoor, chitarrista e compositore della band di Bethesda, per scambiare quattro chiacchiere sull’ultimo album “Periphery V: Djent Is Not A Genre” e sul tour europeo, tra curiosità e rimandi al passato.

Ciao Misha e benvenuto su SpazioRock! Come stai? Il tour sta procedendo bene? Sei emozionato per stasera? Lo show è sold out da due settimane!

Sono veramente emozionato, ci piace un sacco suonare qui. Il pubblico italiano ha sempre una grande energia. Il tour sta andando benissimo e, onestamente, non possiamo lamentarci: è passato un po’ di tempo dall’ultima volta in Europa e non sai mai come le persone potrebbero reagire. Non vogliamo darlo per scontato, ma sta andando molto bene, è stata una bellissima sorpresa.

Esatto, questo è il vostro primo tour europeo dopo il durissimo periodo della pandemia, il che è probabilmente una delle motivazioni principali dietro ad un così caloroso responso dei vostri fan. Voi avete provato a compensare la mancanza di concerti a causa del coronavirus pubblicando il vostro primo live album nel novembre del 2020, registrato nel 2019 all’O2 Forum Kentish Town di Londra. L’idea di tramutare il concerto in un disco era già tra i vostri propositi o è stata una scelta fatta appositamente durante la pandemia? Il responso del pubblico vi ha soddisfatto e, se sì, avete in programma di rilasciare un altro live album in futuro?

Sono un bel po’ di domande, proverò a ricordare! [ride, ndr]. È stato chiaramente una risposta alla pandemia, non avevamo in programma di pubblicare un live album. Eravamo pronti a riunirci e a scrivere, ma non potevano stare insieme, quindi abbiamo iniziato a pensare a questa cosa. Anche perchè non saremmo potuti andare in tour per un po’ e viaggiare era molto difficile, quindi era un progetto che ci avrebbe permesso di far uscire della musica. In particolare, se ricordi, era quel periodo in cui non sapevamo quanto quella situazione di incertezza sarebbe durata.
Per quanto riguarda il responso dei fan, direi che è stato buono. Sai, credo sia un live album che suona molto bene, non avevamo programmato di pubblicarlo quindi non abbiamo suonato con il pensiero che sarebbe diventato un disco.
Noi registriamo ogni show, è molto facile e serve principalmente per far sì che Alex Markides possa fare un soundcheck virtuale ogni giorno. Quindi è successo che avevamo tutti gli strumenti di cui avevamo bisogno e abbiamo pensato: «magari potremmo mettere insieme il tutto». Quello che posso dirti è che non c’è una vera necessità da parte nostra di tirar fuori un nuovo live album, non penso che il feedback sia stato così elettrizzante da farci dire «wow, dobbiamo assolutamente farne un altro». E se dovessimo un giorno pensare di rifarlo, probabilmente sarà tra molto tempo, in modo da assicurarci che le canzoni siano abbastanza diverse.

“Periphery V: Djent Is Not A Genre” è il nome del vostro settimo full-length. Il disco ha avuto una gestazione lunga e tortuosa tra la pandemia e tutti i vostri side-projects in corso d’opera. Nonostante ciò, quello che viene fuori da questo bellissimo album è quanto lontano si siano spinti i Periphery. Quanto è importante prendersi del tempo, imparare ad aspettare per l’ideale riuscita di un album?

È la cosa più importante. Successo per noi vuol dire sentirci felici per quello che abbiamo creato, quindi in fase di composizione continuiamo a lavorarci su finchè non siamo contenti del risultato e, se non lo siamo, ci prendiamo del tempo. La realtà è questa: niente ti fa guadagnare abbastanza soldi o ti fa arrivare da qualche parte al punto che dovresti farlo per un altro motivo al di fuori della passione. La passione è l’unica ragione, almeno per noi. Quindi rilasciare qualcosa in cui non ce ne sentiamo abbastanza non avrebbe senso.

Ripensando al vostro primo album e mettendolo a confronto col nuovo lavoro, l’evoluzione nel sound e nel songwriting è davvero notevole: un climax ascendente che ha trasformato le atmosfere grezze delle origini in paesaggi sonori molto più aperti, grazie ad una cospicua esplorazione melodica. Elementi che convertono le trame degli album in una sorta di scenari cinematografici che hanno raggiunto il loro apice negli ultimi due dischi. Era questa la direzione che volevate imboccare quando avete avviato la band o è semplicemente il flusso naturale della vostra musica ad avervi portato a tali risultati?

Bhe, è passato molto tempo, quindi è sostanzialmente un flusso naturale. Non ho mai avuto piani di lavorare ad altri album al di fuori di quello in cui ero immerso. Non avevo la forza mentale di pensare ad altro perchè ero completamente assorbito da quel determinato lavoro. Se ci pensi, il primo album è stato pubblicato nel 2010, ma molti pezzi sono stati scritti nel 2006/2007. Sono comunque passati quattordici anni, immagino che anche i tuoi gusti musicali siano cambiati durante questo arco di tempo, queste cose progrediscono e mutano. Quindi stai semplicemente ascoltando e reagendo alla nostra evoluzione sia a livello umano, che compositivo. Ci chiediamo sempre: «come sarebbe se esplorassimo questa direzione? Oppure quest’altra?», facciamo dei piani per l’album successivo ma finiamo sempre per fare qualcosa di diverso da quanto preventivato. È un processo che si fonda sull’intuito ed è quest’ultimo che seguiamo sempre.

periphery V

Parlando un po’ di tematiche, uno degli aspetti chiave che governa non solo l’album, ma anche la vostra intera discografia, è il legame speciale che avete con i videogames: “Zagreus” prende il nome dal protagonista di Hades, “Atropos” invece dal pianeta su cui sono ambientate le avventure di Returnal. Ma, soprattutto, ritorna l’importante vincolo che unisce la vostra musica a Final Fantasy, questa volta con un sincero tributo a Nobuo Uematsu in “Thanks Nobuo”. I videogames sono spesso visti come mero divertimento per bambini, una concezione che trascura brutalmente lo strenuo lavoro di programmazione, lo studio dietro la storyline e la colonna sonora, ma, soprattutto, le emozioni che possono farti provare, esattamente come un film, un libro o, per l’appunto, come un album. Cosa diresti ad una persona che non riesce a cogliere il valore emozionale dei videogiochi? Come proveresti a fargli cambiare idea a riguardo?

Credo sia una forma d’arte piuttosto nuova e, guardando al passato, storicamente le nuove forme d’arte passano periodi difficili. Anche le soundtracks dei film non hanno goduto sempre dello stesso rispetto che avevano, ad esempio, degli stimati compositori. Ma è adesso che vediamo il cambiamento, sono usciti grandi nomi come Hans Zimmer, John Williams, artisti che adesso sono accerchiati da un’enorme stima: è perchè ormai le colonne sonore esistono e evolvono da un centinaio di anni.
I videogiochi sono decisamente più nuovi e quel che sta succedendo è che noi della generazione cresciuta con questi stiamo invecchiando. Stiamo diventando una sorta di trendsetter per tutti quelli più giovani di noi ed è per questo che le soundtracks dei videogames stanno diventando sempre più mainstream e che c’è molta gente che può dire di amarle. Credo che quando eravamo piccoli i nostri genitori non capissero il senso dietro ai videogiochi; invece adesso, ad esempio, i miei ci giocano!
È questo il cambiamento che sta avvenendo: non è tanto il convincere una persona a cambiare idea su qualcosa, perchè, alla fine, sempre di arte si tratta. Può andare a genio a qualcuno e a qualcun altro no. Credo che un importante componente dei videogames sia la nostalgia nel rigiocarli: quello che adoro di Final Fantasy e della sua musica è che mi riattiva ricordi di quando l’ho giocato per la prima volta, di come mi sentivo ai tempi. Sai, è davvero difficile da spiegare a chi non gioca. Molti dei nostri fan sono gamers, quindi riusciamo a capirci sotto questo punto di vista. Se non sei un gamer, è difficile che ci sia un modo per farti cambiare idea, anzi, forse non ce n’è realmente il bisogno.

L’opener “Wildfire” è decisamente intrigante, un bel compendio di tutto il Periphery sound degli ultimi anni. Siamo rimasti molto colpiti dal refrain piuttosto non convenzionale e dalla reference alla strumentale “The Event” da “Juggernaut: Alpha”. Ma anche l’inserimento del sax di Jørgen Munkeby in quell’intermezzo jazzy ci ha sorpreso, un artista che, tra l’altro, ha collaborato anche con gli Haunted Shores. Vorresti parlarci un po’ della genesi di una traccia così particolare e di come vi è venuta in mente l’idea di implementarci il sassofono?

È un pezzo piuttosto interessante: è partito tutto da una demo di GetGood Drums – se non avessi familiarità con questo nome, è una compagnia di drum software di cui sono proprietario. Molto spesso scrivo robe per fare delle dimostrazioni, è un qualcosa senza rischio e senza responsabilità poiché il mio lavoro è semplicemente quello di mostrare il prodotto, così posso mollare un po’ la presa e lasciar andare la creatività. È una sorta di lezione di vita: molte volte quando ti stacchi dai vincoli e pensi più liberamente, possono venir fuori cose davvero belle. Questo accade molto spesso con le idee che escono con GGD, perchè non è strettamente correlato ai Periphery e non devo prenderla super seriamente. Quindi spuntano molte intuizioni, di cui diverse spontaneamente: ciò accade quando le idee si basano principalmente sulle vibes e sui sentimenti momentanei, soprattutto quando utilizzo di meno il mio cervello. Ogni tanto vorrei poterlo spegnere con un interruttore, non è ovviamente facile farlo, soprattutto quando tieni particolarmente a qualcosa, ma è importante poter allevare delle idee nate mentre sei senza pensieri.
A volte tendo ad essere piuttosto creativo di notte, le chiamo le idee delle 3 AM, il che può essere un male, dato che vado a dormire molto tardi. Credo succeda perchè il cervello, sul tardi, inizia a sfumare mentre si spegne, quindi non è al 100% e la creatività si intrufola in maniere diverse rispetto al solito. È in quei momenti che provo a metter su robe più sperimentali. Credo che fossero tutti pronti per andare a letto, ma io ho detto tipo: «datemi giusto altri cinque minuti», avevo questa idea in testa e volevo vedere dove mi avrebbe portato. Così ho creato questa piccola sezione jazzy, che altro non è che un’interpretazione in chiave jazz del ritornello. Ovviamente non mi ci sono voluti cinque minuti, ma diverse ore, il tempo passava senza che me ne accorgessi. Così mi ritrovai intorno alle 4 o 5 del mattino con questo intermezzo tra le mani, con un assolo di piano e tutto il resto che avevo programmato. Eravamo talmente stanchi che a malapena ricordavo di aver scritto una roba del genere. Il giorno dopo lo abbiamo sentito insieme e quello che mi aspettavo era tipo: «ok, carino, ma non credo che dovremmo inserirlo nell’album», invece gli è piacuto un bel po’, così ho detto: «ok, allora lo tengo». Come hai detto, abbiamo sempre collaborato con Jørgen Munkeby, ma abbiamo sempre innestato gli assoli su una base piuttosto pesante. Ma questa volta è andata tipo: «ehi, perchè non proviamo ad inserire un assolo su qualcosa di più vicino alla “norma”» e lui ha accettato. È davvero un genio musicale, ha scritto per noi un solo incredibile con facilità.
Quindi sono queste le principali lezioni che mi guidano in fase di scrittura, soprattutto il provare a mollare la presa. Anzi, l’essere abbastanza stanco per mantenerla [ride, ndr]. È così che è nata “Wildfire”.

“Wax Wings” è un’altra chiara testimonianza di quanta rilevanza avete concesso alla ricerca melodica. Ma quel che ci ha colpito in particolare è la potenza delle lyrics, che disegnano, secondo quello che abbiamo percepito, la volontà di spiccare il volo, di raggiungere degli obiettivi che ci vengono ostacolati, però, da una società che ci incatena a terra. La frase: «Must I lay here as a product of the world I never leave» riassume questa specie di volo di Icaro, le cui ali di cera iniziano a sciogliersi man mano che si avvicinano al sole. Abbiamo sentito la frustrazione dei giovani di oggi, il desiderio di oltrepassare i propri limiti annientato da una società che preferisce tenerti con sé piuttosto che lasciarti andare. Abbiamo azzeccato il significato della canzone oppure c’è un’altra spiegazione dietro al testo?

Spencer ha scritto il testo e non ama particolarmente confessare il significato dietro ad esso. Vuole che le persone lo interpretino. Se dovessi risponderti come farebbe lui ti direi che se questo è quello che hai captato dalla canzone, allora è esattamente quello che la canzone significa. Ti dirò, la tua interpretazione è molto buona, molto vicina a quella che è l’idea di partenza. Se Spencer avesse voluto che le persone sapessero esattamente quello di cui parla il pezzo, lo avrebbe detto esplicitamente. Ce ne sono molte di queste, ma “Wax Wings” finisce di certo nella categoria di quelle da interpretare. Magari ha un significato per te ed uno diverso per me, ed è forse questa la cosa più bella.

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Photo Credits: Ekaterina Gorbacheva

Tutti voi avete diversi side-projects: abbiamo menzionato precedentemente gli Haunted Shores, ma ci sono anche il tuo progetto Bulb, i Four Seconds Ago, gli Of Man Not Of Machine e molti altri. Quanto l’universo dei Periphery ha influenzato le scelte musicali di queste band “laterali”? Avete provato a collegare queste realtà o avete scelto di creare una sorta di consapevole distanza tra questi progetti e la band principale?

Non ci sono scelte fatte consapevolmente, anche qui avviene tutto in maniera abbastanza naturale. Il punto principale dei side-projects è che puoi soddisfare dei “desideri” sonori che risultano magari complicati da sfogare tramite la band principale, che siano riguardanti la dinamica di scrittura o l’esplorazione stilistica. Quindi, già di per sé, questa roba si separa da sola, la metti in un ripostiglio in modo che tu possa sfruttarla al meglio per altre idee.
Ad esempio, Matt suona i blast beats, ma non ama particolarmente suonarne troppi, questo ci concede una scusa per suonare musica davvero veloce ed aggressiva con gli Haunted Shores, specialmente quando non abbiamo la responsabilità di riprodurla in live e sfruttiamo, quindi, un approccio di tipo puramente compositivo. Non ne abbiamo parlato, ma l’abbiamo sentito spontaneamente.
Però vige quella sensazione che se scrivo qualcosa – e scrivo letteralmente di tutto – i Periphery hanno la priorità: “Crush”, ad esempio, è un pezzo che ho composto per divertimento, ma poi Spencer ci ha aggiunto le vocals e ho pensato: «wow, è davvero figo, potrebbe essere una canzone dei Periphery? È piuttosto strana». E invece tutti gli altri hanno detto: «no, ci piace un sacco. Ci abbiamo lavorato su, trasformandola di fatto in una canzone dei Periphery». Ed è stato bello sentire tutto questo, nonostante non sia stata inizialmente intesa come una traccia per la band; anzi, è forse la cosa più lontana che mi sarei aspettato di metter su con loro.
Ma se i Periphery vogliono, hanno l’assoluta priorità per due ragioni: uno perchè sono la main band, due perchè possiamo, prendendo come esempio “Crush”, suonarla live, cosa che non accadrebbe mai con i side-projects, almeno non con i miei. Quindi è come se dessi a qualcosa una nuova vita e molta più visibilità. Direi che i Periphery hanno sempre la possibilità di appropriarsi di questi esperimenti o di qualsiasi cosa che possa espandere la loro palette sonora.

Un’ultima domanda: sembra che la pandemia abbia mollato un po’ la presa e che ci siano ora meno ostacoli rispetto a qualche anno fa. Dovremo aspettare molto per un nuovo album? Avete già qualche idea in costruzione oppure state semplicemente pensando a godervi il tour ed il successo dell’ultimo album?

Sai, per il momento ci stiamo concentrando sul tour. Scriviamo sempre e ne parliamo sempre. È veramente difficile pensare a comporre un nuovo album, siamo in una fase in cui ci sentiamo realmente creativi, ma siamo anche nel mezzo di un ciclo aperto dall’ultimo disco, quindi non c’è tutta questa fretta. Probabilmente inizieremo a pensarci presto, ma non c’è ancora nulla di ufficiale, non abbiamo nemmeno discusso su come dovrebbe essere il disco che andremo a fare. Quindi sì, ci stiamo focalizzando solo sul presente.

Grazie mille per il tuo tempo, è stato un piacere poter scambiare due chiacchiere con te. Prima di lasciarci, vorresti dire qualcosa ai tuoi fan italiani? Ciao!

Grazie infinite per il vostro supporto, i fan italiani sono alcuni dei più appassionati del mondo e adoriamo suonare qui. So che non passiamo spesso da queste parti, ma in generale non facciamo troppi tour. Adoro venire a Milano, è sempre stata una bellissima città per noi e stasera lo show è sold out, quindi non vedo l’ora di salire sul palco. Se c’è qualche fan della F1 tra di voi, allora “forza Ferrari!”, spero vada bene quest’anno, vediamo cosa succederà! [ride, ndr].

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