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Muse – Will Of The People

Fin dai primi 2000 Matt Bellamy ha scritto canzoni su un futuro prossimo distopico, fatto di lotta contro l’autoritarismo del governo (“The Resistance”), talvolta sull’abuso di macchine distruttrici (“Drones”), altre volte sulla fine del mondo e i piani dimensionali in cui può manifestarsi la realtà (“Absolution”, “Origin Of Symmetry”) spesso e volentieri prendendo ispirazione da fonti letterarie, saggi e trattati d’avanguardia. Cinque anni sono passati da quando i Muse hanno voluto farci indossare il visore VR e trasportarci dentro il mondo retro-futuristico e un po’ pasticciato di “Simulation Theory”, che strizzava l’occhio a un quasi profetizzato metaverso che doveva, tuttavia, ancora presentarsi agli onori della cronaca. Stavolta con il nono lavoro in studio “Will Of The People” scelgono – finalmente – di trattare il tema più distopico, contorto e a tratti aberrante: il nostro presente.

Avendo l’obiettivo preciso di rispecchiare gli eventi mondiali, l’album esplora le forme di paura che ultimamente e sempre più spesso governano la vita delle persone. L’apertura è affidata alla title track, una satira glam-rock dai quali sembra di vedere i seguaci di Trump assaltare il Campidoglio degli USA il 6 gennaio determinati a “spingere gli imperatori nell’oceano” e “fare a pezzi una nazione”, che riprende “The Beautiful People” di Marilyn Manson in un’ottica citazionista a 360°. Il cantante Matt Bellamy conclude: “Abbiamo bisogno di una rivoluzione, purché rimaniamo liberi“. Da lì otteniamo un cinegiornale sonoro dell’era della pandemia, dalle rivolte del Black Lives Matter alla caccia alle streghe sui social media, la pandemia, e finiamo con la condanna più viscerale della situazione globale che i Muse abbiano mai concepito.

We’re at death’s door, another world war, wildfires and earthquakes I foresaw/A life in crisis, a deadly virus, tsunamis of hate are gonna drown us”, osserva Bellamy  sulle movimentate note elettro-punk e i sinistri cori operistici di “We Are Fucking Fucked”. L’angoscia dei Muse non si limita nemmeno agli indirizzi dello stato del mondo: la miseria personale di una relazione abusiva viene analizzata in “You Make Me Feel Like It’s Halloween”, che gli anglofoni definirebbero “so bad, so good”. In un modo o nell’altro, un senso di terrore permea quasi ogni canzone.

Ci sono echi dei Queen nella loro forma più esagerata, in particolare in “Liberation”, in cui il barocco e magniloquente arrangiamento sembra un’appendice di “United States Of Eurasia”, mostrando la teatralità da stadio che caratterizza il Trio e che ha portato loro lodi e infamie in parti uguali nell’ultimo periodo. Le tematiche riprendono quelle del BLM (“You’ll send the army to trample on our prayers”), e della forza delle proteste.

“Kill or Be Killed” offre una carica di heavy metal a tutto tondo verso la violenza estrema (“The world rewards us when we’re bad”), vero banger del lotto capace di trasportarci indietro ai tempi di “Stockholm Syndrome” e di sfoggiare tutto il talento di creatori di riff che sembrava sopito da qualche anno a questa parte. Accanto a grandi picchi si trovano anche cadute rovinose come la terribile “Compliance”, un synth pop che scimmiotta i Van Halen nel tema di moog ma che finisce solo per essere un pot-pourri prevedibile e già sentito, ma che solleva temi importanti come mettere in guardia dall’ascesa dei totalitarismi e dei populismi (“We just need your compliance / You will feel no pain anymore / And no more defiance / No more self-reliance”).

Il perfetto ibrido tra nuovo e vecchio stile dei Muse giace nel singolo di lancio dell’album “Won’t Stand Down”, una sorprendente sintesi tra melodie, brutalità degli strumenti e la voce di Matt Bellamy che si spinge verso le vette di “Absolution”, mentre è così piacevole tornare a sentirlo cantare piano e voce nello splendido arrangiamento di “Ghosts (How Can I Move On)”, dove stavolta la paura si concretizza nel dover demolire ciò che resta di una relazione e ricominciare da capo, da soli. Momenti di tale intimità mancavano da lungo tempo in un album dei Muse.

Verso il finale “Will Of The People” assesta gli ultimi colpi di coda: il rock da stadio di “Verona” dove la città scagliera si pone come teatro di una tragedia d’amore in stile shakespeariano, per poi lasciare spazio all’immaginario di “Euphoria”, quasi in stile “Brave New World” che evoca un futuro di beatitudine lobotomizzata e oppiacea, dove si presentano una serie di immagini cupe e interconnesse, musicalmente quasi una seconda “Knights Of Cydonia”. Ma, in tutto l’album, è chiaro che Bellamy non sta solo sguazzando in uno stato di paranoia accresciuta, ma sta canalizzando queste moderne ansie nelle canzoni dei Muse più pregievoli da un quinquennio a questa parte.

Eppure musicalmente sembrano non riuscire a dare concreta forma a una pomposità che è da sempre stata il loro marchio di fabbrica, spesso travolgendo le parole di Bellamy in una bufera di ginnastica musicale che non porta a nessun risultato degno di nota. Ciò nonostante è sulla strada per incanalare sempre meglio la voce del suo pubblico, tentando di riassumere meglio un sound che sembrava perdersi nell’iperuranio della sperimentazione e della ricerca e che adesso si condensa, a tratti, in alcune trovate suggestive. Finalmente la band di Devon può tornare ad alzare la testa, ma la strada per riconquistare un posto da leader nel rock è ancora lunga.

Tracklist

  1. Will Of The People
  2. Compliance
  3. Liberation
  4. Won’t Stand Down
  5. Ghosts (How Can I Move On)
  6. You Make Me Feel Like It’s Halloween
  7. Kill Or Be Killed
  8. Verona
  9. Euphoria
  10. We Are Fucking Fucked

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