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Protomartyr – Formal Growth In The Desert

Time’s your enemy
Every gift you see will be taken for sure

Due versetti di un pragmatismo dilaniante, confessati, qualche mese prima di morire, da un parroco a Joe Casey. Anche colui che assimila e tramanda la parola di una divinità, il parafulmini su cui converge un intero universo intangibile e non dimostrabile, narra di verità spietate e crudo realismo, due minuziosi becchini che scavano la fossa all’ottimismo, ai bei sogni irrealizzabili, al rimandare le cose, col ticchettio del loro sudore che gocciola sulla terra gelida come un orologio in procinto di arrestare la sua corsa.

Oggi, come non mai, c’è bisogno di un minimo di freddezza, di lucidità, di mano ferma per venir su in una società complessa, che privilegia pochi idioti e prende simpaticamente in giro tutti gli altri. È forse per questo che i Protomartyr decidono di essere eremiti in un metaforico deserto, una nuova casa di sabbia bianca e nera dove forgiarsi spiritualmente ed evolversi, contro una realtà inzuppata di dolore.

Il buio aiuta a meditare e “Formal Growth In The Desert” fa calare una rispettosa oscurità sul songwriting della band di Detroit, raccolta in musica a fagocitare i pensieri di un Joe Casey provato dalla scomparsa della madre, il fulcro attorno al quale si muovono gli strumenti. Un’opera fortemente autobiografica, che incornicia l’accettazione non come vittoria, ma come unica via percorribile per vivere, illuminata dalla lucida malinconia di “Make Way”, tra arpeggi e scossoni di distorsione. “You can grieve if you wanna, but please don’t ruin the day”, parole autoritarie di un uomo che ha tributato quel che è stato guardando oltre, chiedendo veementemente di fare spazio.

Photo Credits: Trevor Naud

L’album acquisisce il moto di un pendolino che oscilla tra rimpianti del passato, affrescati dal post-punk tarantolato di “Fun In Hi Skool”, ed un futuro tutt’altro che roseo (“For Tomorrow”), diventando tagliente come una ghigliottina non appena si appropinqua al punto centrale, un presente in cui bisogna danzare costantemente per evitare di soccombere (“Elimination Dances”), in cui confondersi in una società di cervelli spenti risulta la scelta più comoda (“3800 Tigers”), in cui il tempo perso pesa come un macigno.

E Joe Casey lo sente, sente i suoi quarant’anni inoltrati, medita sui suoi traguardi e su tutto ciò che la vita non gli ha ancora permesso di acciuffare. E tra le irriverenti invettive in tinte acide di “Let’s Tip The Creator”, rivolte ai nuovi presunti padroni del mondo – fenomenali gli escamotage per punzecchiare Zuckerberg ed Elon Musk – e i roboanti sogni di “Fulfillment Center”, che si spengono a contatto con la realtà, scivolano fuori le debolezze del leader dei Protomartyr, le lacrime – impiastrate di shoegaze – per l’abbandono inevitabile della casa natìa (“We Know The Rats”), il muro di freddezza che crolla dinanzi ad una perdita (“Graft Vs. Host”) e si scioglie nell’invito a “baciare chi ti ama per ciò che canti” (“The Author”), il pensiero dilaniante di non aver ancora avuto figli, di non aver ancora trovato l’amore.

Ed è con quest’ultimo che si conclude il sentito percorso di “Formal Growth In The Desert”, un ciclo che si apre con la morte e termina con una toccante presa di coscienza sull’amore e su come il sentirsi di meritarlo sia anch’esso un meraviglioso modo di amare. Un cerchio perfetto, nonostante i suoi estremi (tematici) totalmente opposti, due margini ricongiunti da un inno ripreso e riplasmato, cinque parole – “make way for my love” – che riecheggiano dalle acque tenui di “Rain Garden”, sussurrandoci all’orecchio che tante sono le piccole cose belle per cui vale la pena di continuare a danzare.

But love
But love has found me

Tracklist

01. Make Way
02. For Tomorrow
03. Elimination Dances
04. Fun In Hi Skool
05. Let’s Tip The Creator
06. Graft Vs. Host
07. 3800 Tigers
08. Polacrilex Kid
09. Fulfillment Center
10. We Know The Rats
11. The Author
12. Rain Garden

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