In Flames
Colony

1999, Nuclear Blast
Death Metal

Recensione di Lorenzo Brignoli - Pubblicata in data: 21/04/10

Nell’anno in cui i cugini Dark Tranquillity, con “Projector”, danno un importante svolta alla propria carriera, gli In Flames preferiscono restare ancorati al trademark che li ha caratterizzati. Lo testimonia “Colony”, album pubblicato a metà del 1999, in cui gli svedesi non compiono significativi cambiamenti nell’approccio musicale, proseguendo la linea iniziata con “The Jester Race” prima e “Whoracle” poi. Quindi album di transizione? Magari fossero tutti così. Difatti nonostante, come detto, le innovazioni siano poche (ma come vedremo in seguito significative), il quintetto di Goteborg sforna un grande album, uno dei più amati dai fans e che all’epoca segnò il record di vendite per la band.

Già dall’iniziale di “Embody The Invisible” si capisce il filo conduttore del disco: potenza e melodia, fuse in un mix che ha fatto e farà la fortuna degli infiammati, con l’aggiunta dell’ottimo growl di Frìden, probabilmente alla migliore prova individuale in carriera. La successiva “Ordinary Story” merita un paragrafo a parte, è infatti la canzone più particolare dell’album, la prima nella discografia degli svedesi in cui giocano una parte importante le clean vocals, eseguite dallo stesso Friden; qui, in parte, si può intuire dove andrà a parare il gruppo in futuro con “Clayman” e soprattutto “Reroute To Remain”. Ad ogni modo sicuramente ci troviamo di fronte ad una delle migliori tracce del platter (da cui è stato anche tratto un videoclip) e ad una delle più importanti, da un punto di vista “biografico”, della band.

Da qui in avanti il disco segue la falsa riga già accennata con l’opener, con alcune eccezioni: la strumentale “Pallar Anders Visa” ad esempio, che ci ricorda gli amati inserti folk degli esordi, oppure “Coerced Existence”, che rimanda alla sopracitata “Ordinary Story” per la presenza di alcuni pezzi in clean, ed infine la nuova versione di “Behind Space”, l'opener del debutto “Lunar Strain”, rivalorizzata dall’ottima produzione di Fredrik Nordstrom e, manco a dirlo, dalla prova di Friden, che non fa rimpiangere quella già validissima di Mikael Stanne.

Accennavo alla produzione, difficile infatti lamentarsi del lavoro dell’affidabilissimo Nordstrom, una vera e propria garanzia per i gruppi di Goteborg e non solo; il sound del disco è infatti compatto potente e pulito e nessuno strumento prevale sugli altri. Poche pecche nella produzione quindi, così come poche pecche si possono trovare nell’album per quanto detto in precedenza: la, chiamiamola così, staticità evolutiva, è ben compensata da un disco praticamente senza passaggi a vuoto e che va ascoltato tutto di un fiato. Per il cambiamento ci sarà tempo in futuro, come ben sanno i cultori degli In Flames, intanto chi si accontenta gode.





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