In Flames
Soundtrack To Your Escape

2004, Nuclear Blast
Alternative Metal

Recensione di Lorenzo Brignoli - Pubblicata in data: 23/05/10

Chi visse in diretta la pubblicazione di questo album ricorderà facilmente come i fan degli In Flames si divisero radicalmente tra chi lo apprezzò parecchio e chi lo detestò. Difficile infatti pensare che l’audience della band svedese potesse accogliere in modo omogeneo un sound ormai lontanissimo da quello degli esordi sotto tutti gli aspetti: linee vocali, songwriting e produzione. Questo perché se già “Clayman” e soprattutto “Reroute to Remain” si staccavano notevolmente dal trittico costituito dai tre precedenti dischi, con "Soundtrack To Your Escape" sembra quasi di sentire un'altra band rispetto a quella che compose canzoni come “Behind Space” e “Food for the Gods”.

Con tutta probabilità, infatti, ci troviamo davanti al lavoro più sperimentale della band di Goteborg, lo conferma il fatto che è francamente difficile trovare un genere che sposi perfettamente la musica suonata nell’album. Già la opener “F(r)iend” lascia basiti: c’è poco o nulla degli In Flames precedenti, neppure quelli di "Reroute to Remain" si erano spinti così lontano, preferisco lasciare all’ascoltatore un giudizio su questa traccia, personalmente mai gradita del tutto, ma senza dubbio coraggiosa.

Meno particolare è il primo singolo estratto dall’album, intitolato "The Quiet Place": si tratta di una delle canzoni più orecchiabili in assoluto della discografia degli svedesi, grazie anche ad un uso abbastanza imponente (per gli standard degli infiammati fino a quel momento) dell’elettronica e alle linee vocali che privilegiano il pulito a discapito dello screaming. Nonostante questo un minimo di apertura mentale vi basterà per apprezzarla a pieno, tuttavia potrebbe anche essere la prima del lotto a stancarvi.

Già ascoltando queste due tracce si capisce il cambiamento più grosso messo in atto dagli In Flames, ossia il ruolo delle chitarre, ripetutamente ridotte più ad una funzione ritmica che melodica, dato che quest’ultima è spesso sostituita dalle tastiere. Una specie di muro sonoro, quello fatto dalle asce di Jesper Stromblad e Bjorn Gelotte, che ricorda più da vicino certo metalcore o addirittura l’Industrial più che il melodeath degli esordi; certo, in alcuni passaggi troviamo ancora un riffing che rimanda alla prima parte di carriera degli svedesi, ma sembra quasi che esso svolga più un ruolo di contorno che di primo piano. Tra le canzoni che fanno maggiormente eccezione a questa, chiamiamola, regola, troviamo le due migliori dell’album, ossia “My Sweet Shadow” e “Superhero of the Computer Age”: due cavalcate emozionanti, in cui le chitarre creano melodie trascinanti e l’elettronica trova poco spazio; senza dubbio queste rientrano tra le migliori composizioni della “seconda fase” della band di Goteborg. In particolare "My Sweet Shadow" è una delle canzoni che guadagnano di più dal vivo, forse perché penalizzata da una produzione troppo pastosa, ma soprattutto per la bravura in sede live degli In Flames, veri e propri “animali da palcoscenico”.

Niente di nuovo, rispetto al precedente "Reroute to Remain", sul fronte ritornelli, ancora una volta in maggioranza melodici e cantati in pulito dall’ottimo Anders Friden, che si dimostra ancora una volta un singer completo sotto tutti i punti di vista; tutto ciò aumenta parecchio l’orecchiabilità dell’album ma quest’ultima non va presa come una pecca. Difatti, una delle accuse fatte più frequentemente agli In Flames è quella di essere una sorta di Metallica del nuovo millennio, avendo abbandonato le sonorità più di nicchia degli esordi per un sound più accessibile alle masse (sensazione confermata dal boom di popolarità che la band ha avuto dopo il 2002), creando così una sorta di parallelismo con le ben note vicende legate al gruppo di San Francisco: personalmente, senza alcuna presunzione, ritengo questi discorsi abbastanza inutili perché, se è vero che la musica degli svedesi è più commerciale di quella degli esordi, è altrettanto vero che poche band la suonano con cotanta personalità; in altre parole non credo che, per quanto orecchiabile, si possa tacciare questo disco di essere stato costruito a tavolino. Certo ci sarà chi rimpiangerà eternamente gli arpeggi acustici di “Moonshield” o i riff di “Artifacts of the Black Rain”, è questione di gusti, ed essi sono sempre legittimi. Gusti che però quasi certamente sono cambiati anche nelle teste dei cinque svedesoni e che probabilmente hanno deciso di spostarsi verso lidi più sperimentali.

Venendo ad un giudizio complessivo, l’album è costituito da buone ed ottime tracce, ma che per essere apprezzato necessita di una certa apertura mentale e soprattutto, assenza di pregiudizi. E’ impossibile che questo disco metta tutti d’accordo e penso che i primi ad esserne consapevoli fossero gli In Flames ma personalmente lo ritengo un lavoro di qualità, come tutti quelli prodotti dagli svedesi, in cui l’unica pecca vistosa è fatta da una produzione (opera per la seconda volta consecutiva di Daniel Bergstrand), un po’ troppo pastosa che non valorizza a pieno alcune tracce. Quindi, anche se non a pieni voti, promossi, once again.





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