Serata a stelle e strisce quella di lunedì per gli appassionati di rock n’ roll milanesi: all’Alcatraz va di scena una band che da diversi anni non ha alcun bisogno di presentazioni, i Black Stone Cherry, accompagnati dai The Georgia Thunderbolts, giovane gruppo – guarda caso proveniente dalla Georgia – che ha pubblicato l’anno scorso l’album di debutto. I ragazzacci del Kentucky, tornano invece in Italia dopo ben 3 anni, con un album pubblicato in piena pandemia e un nuovo bassista, dopo l’abbandono di Jon Lawhon, fulmine a ciel sereno per i fan del quartetto.

Ma andando per ordine, i Thunderblots salgono sul palco in perfetto orario sulla tabella di marcia e snocciolano vari brani da “Can We Get A Witness” e dall’EP omonimo, riscaldando un pubblico già numeroso e decisamente più attento a quello che sta succedendo sul palco che a rifocillarsi di birra al bar. Effettivamente i cinque tengono il palco a meraviglia e, nonostante siano al debutto discografico, si riesce a capire immediatamente la forte intesa live, derivata da anni di concerti insieme. Gli statunitensi propongono un hard rock dalle forte tendenze southern, che si ispira a quello dei Black Stone Cherry, ma che manca forse delle sferzate più dure e dei momenti più divertenti e orecchiabili. Parliamoci chiaro, chiudendo gli occhi la scena che vi si para davanti è comunque quella di un viaggio in decapottabile in qualche deserto degli Stati del sud, ma forse per riuscire a emergere i cinque dovrebbero cercare di donare più colore e sfumature al loro sound.

I 30 minuti che ci separano dall’arrivo dei Black Stone Cherry passano relativamente in fretta e quando si spengono le luci i quattro (più il percussionista Jeffrey Boggs) salgono sul palco sulle leggendarie note di “Sabotage” dei Beastie Boys, attaccando poi 80 minuti di fuoco con “Me And Mary Jane”, inno al divertimento e al consumo di sostanze dalla dubbia natura legale.

Avete presente quando un concerto sta per finire e all’ultima canzone i musicisti mettono tutta l’energia che hanno fino all’ultima goccia per dare il giusto saluto e ringraziamento al pubblico? Quello che forse sconvolge maggiormente è che i Black Stone Cherry quella stessa energia ce la mettono in ogni singolo pezzo, dal primo all’ultimo. Non importa che lo show sia appena iniziato, che ci sia il pezzo meno tirato o quello scritto apposta per trasformare la platea in un tritacarne: il quartetto del Kentucky tiene fissa l’asticella dell’intensità a livelli folli e viene giustamente tributata da un pubblico adorante.

La band si dimostra anche molto intelligente a puntare maggiormente sui primi tre album, quelli che li hanno lanciati e consacrati tra le realtà più apprezzate del rock made in USA dell’ultimo decennio, ma c’è da dire che anche i (pochi) singoli suonati da “The Human Condition” – “Again” e “Ringin’ In My Head” – e dagli album più recenti vengono apprezzati e cantati dalla totalità del pubblico. Difficile non lasciarsi coinvolgere dalla folle energia di Ben Wells, che macina riff grezzi e sporchi correndo e saltando su tutto il palco come un indemoniato – come se la buona riuscita delle note prodotte dalle sei corde dipendessero solo dai km percorsi – o dalla performance fantascientifica di John Fred Young; forse il frontman Chris Robertson esagera leggermente quando lo presenta definendolo “il migliore batterista mai esistito” – forse… –, ma è indubbio che oltre a costituire il motore instancabile di ogni pezzo della band, vedere suonare il batterista in mezzo alla massa informe che si ritrova per capelli è già di per sé uno spettacolo totalizzante. Arrivano anche grandi conferme dal nuovo bassista Steve Jewell, a sua volta perfettamente integrato al resto della band, nonostante sia entrato nei Black Stone Cherry solo da pochi mesi.

Lo show scorre via che è un piacere, tra le mazzate date da “Burnin’”, “Blind Man” o “Devil’s Queen” e pezzi più orecchiabili (ma non per questo più tranquilli) come “Like I Roll” e “In My Blood”. Verso la chiusura gli statunitensi mettono in fila tre devastanti pezzi da novanta come “White Trash Millionare”, “Blame It On The Boom Boom”, su cui il coro dei fan si fa assordante e “Lonely Train”, forse il brano che maggiormente li ha lanciati più di 15 anni fa. Sembra tutto finito, ma un concerto dei Black Stone Cherry non può concludersi senza l’emozionante performance di “Peace Is Free”, per l’occasione suonata insieme al cantante dei Thunderbolts, TJ Lyle.

“And if you feel the urge to raise your hand you can start a revolution or start a band”

Leggenda narra che uno dei primi concerti dei Black Stone Cherry sia stato nella palestra di un liceo, accolti trionfalmente da qualche centinaio di scalmanati come loro. Vedendoli suonare anche 20 anni dopo rimane difficile non crederci: che si trovi in un locale di piccole dimensioni o davanti alle folle oceaniche dei maggiori festival mondiali, la band avrà sempre lo stesso approccio genuino, regalando ai presenti (e a loro stessi) qualche momento di gioia, sudore ed emozione. D’altronde non è questo il rock n’ roll?

Setlist

Me and Mary Jane
Burnin’
Again
Blind Man
Like I Roll
Cheaper to Drink Alone
Hell & High Water
Soulcreek
Devil’s Queen
Drum Solo
Ringin’ in My Head
In My Blood
White Trash Millionaire
Blame It on the Boom Boom
Lonely Train
Peace Is Free

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