accept humanoid recensione
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Accept – Humanoid

È inutile girarci troppo intorno: poche, anzi, pochissime band possono vantare il curriculum e, soprattutto, la fama degli Accept. Fondati verso la fine degli anni ’60 a Solingen, in Germania, il gruppo ha incarnato lo status di gruppo heavy metal teutonico per antonomasia, con anni di anticipo rispetto ai loro colleghi.

Come dite? Non ci credete? Bene, vi basterà una piccola ricerca su Google per capire quanto Wolf Hoffmann, Udo Dirkschneider, Peter Baltes e soci abbiano aperto una breccia per tantissimi altri artisti (tedeschi e non solo) che, qualche anno più tardi, avrebbero imbracciato gli strumenti e percorso l’impervia strada dell’heavy metal.

Ebbene, tanti anni sono passati, della formazione storica è rimasto il solo Wolf Hoffmann, ma gli Accept sono ancora qui tra noi, celebrando l’uscita del loro diciassettesimo disco in studio, intitolato “Humanoid“. Come spesso avviene per gruppi così blasonati, cadere nell’autocitazionismo è quasi automatico, come la stessa copertina testimonia: alzi la mano chi non ha immediatamente riconosciuto il cuore dell’androide rappresentato, omaggio al mai dimenticato Metalheart.

Ma quanto vale “Humanoid”? Nelle prossime righe, cercheremo di dare una risposta.

Un fraseggio arabeggiante da fuoco alle polveri, consentendo al riff roccioso di “Diving Into Sin” di farsi strada ed alla voce roca di Mark Tornillo di innestarsi. Il brano, che ha il compito di dare il benvenuto all’ascoltatore, va dritto al punto, portando in dote tutte le caratteristiche che un fan degli Accept adora: sezione ritmica martellante, groove convincenti, assoli tecnici e linee vocali affilate come un rasoio.

La titletrack debutta ufficialmente al secondo posto della tracklist, non discostandosi moltissimo da quello che abbiamo ascoltato poco fa e mettendo in mostra il tema centrale del disco: i rischi connessi alla tecnologia ed all’uso distorto che l’essere umano può farne. La ricetta è sempre la stessa: ritmiche telluriche e ritornello ficcante, con un bridge che spezza la struttura della strofa e prepara l’ascoltatore al chorus. La sensazione è quella di trovarci davanti ad un pezzo appositamente studiato per essere eseguito dal vivo.

L’avanzamento scientifico e tecnologico può creare mostri, e quale esempio migliore di “Frankenstein” può rappresentare al meglio in concetto? Questo terzo brano si distingue un po’ da quelli che lo hanno preceduto, soprattutto per quanto riguarda bridge e chorus. È il primo pezzo in cui gli Accept fanno uscire fuori una certa melodia. Assoli di gran tecnica e gusto melodico della coppia Hoffman / Lulis.

“Man Up” è la prima mid-tempo del disco, dal gusto più hard rock, che rimanda vagamente alla struttura di “Balls to the Wall”. Anche in questo caso, il pezzo funziona come un orologio svizzero, prestandosi perfettamente ad essere eseguito dal vivo, anche solo per far prendere fiato il pubblico tra un brano ed un altro. “The Reckoning” continua ad incalzare con ritmiche capaci di scatenare headbanging in scioltezza anche se, stavolta il ritornello convince un po’ di meno.

“Nobody Gets Out Alive” è, a parere di chi vi scrive, l’episodio meno riuscito del disco, con una struttura volutamente semplice su cui innestare delle melodie più orecchiabili, sia dal punto di vista strumentale che da quello prettamente vocale. È la volta della ballad che, in questo caso, porta il nome di “Ravages Of Time”; il brano, con i suoi toni decadenti, si concentra sullo scorrere del tempo e sui suoi inevitabili effetti. C’è da rimarcare la notevole performance del cantante, che si cala alla perfezione nel mood della canzone, comunicando come meglio non si potrebbe il tema del pezzo all’ascoltatore.

Ogni disco ha bisogno di una hit, di un inno, di un pezzo in cui il fan possa riconoscersi, ed “Unbreakable” vuole essere quel pezzo. Il brano è un vero e proprio inno all’heavy metal ed a ciò che rappresenta e, con la sua ritmica sostenuto, rappresenta un altro serio candidato ad essere eseguito sulle assi di un palco. Se la formula di “Mind Games” non si discosta molto da quanto descritto in precedenza, “Straight Up Jack” rappresenta il momento più scanzonato del disco che, ancora una volta, sterza in direzione chiaramente hard rock, con un testo interamente a tema alcolico. A “Southside Of Hell” tocca la chiusura del disco, che si conclude esattamente come è iniziato: con ritmiche schiacciasassi, chitarre affilatissime ed una voce rauca, acida ed immediatamente riconoscibile.

Volendo tirare le somme, “Humanoid” ricalca più o meno la formula con cui sono stati realizzati almeno gli ultimi cinque lavori in studio degli Accept. Il tocco in “cabina di regia” dell’oramai consolidato Andy Sneap garantisce un sound estremamente moderno al combo teutonico, mettendo in risalto il lavoro chitarristico di Hoffmann e Lulis, e garantendo un notevole impatto ad ogni singolo pezzo. L’impressione di fondo è quella di trovarsi davanti ad un disco piacevole, estremamente godibile: gli Accept sanno bene che cosa vogliono i loro fan, e loro glielo danno in quantità. Non ci sono momenti in cui il gruppo si allontani più di tanto dal sentiero tracciato, evitando di schiacciare troppo il piede sull’acceleratore ed osando il giusto.

“Humanoid” è un disco di mestiere? Assolutamente si! Ma è un mestiere le cui coordinate sono marchiate a fuoco nella testa e nel cuore di ogni metalhead, soprattutto se con qualche capello bianco di troppo. Gli Accept non possono che essere gli Accept, e non potremmo esserne più grati.

Tracklist

  1. Diving Into Sin
  2. Humanoid
  3. Frankenstein
  4. Man Up
  5. The Reckoning
  6. Nobody Gets Out Alive
  7. Ravages Of Time
  8. Unbreakable
  9. Mind Games
  10. Straight Up Jack
  11. Southside Of Hell

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