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Blind Guardian – The God Machine

Spesso con alcuni gruppi, in particolare quelli circondati da una fanbase agguerrita che grida al tradimento a ogni minima variazione da essi apportata, si pretende un capolavoro dopo l’altro, pena un ostracismo peggiore delle condanne ateniesi. I Blind Guardian appartengono a tale nomenclatura di band, e certo non saranno stati pochi coloro che storsero il naso quando nel 2019 venne rilasciato il monumentale “Legacy Of The Dark Lands”, un disco attraverso il quale i tedeschi portarono il proprio barocchismo musicale al massimo stadio concepibile, collaborando con la Twilight Orchestra.

Oggi, a distanza di sette anni da un maestoso e a tratti ostico “Beyond The Red Mirror”, il combo teutonico opta per un dodicesimo opus snello e diretto, ugualmente provvisto di arrangiamenti sinfonici, filtrati, però, in modo discreto, senza la profusione di stratificazioni che caratterizzavano i due scorsi full-length. E così ci ritroviamo tra le mani un “The God Machine” veloce e aggressivo, frutto di un quartetto desideroso di cambiare un po’ le carte in tavola, rispettando comunque le stigmate di un’identità ben riconoscibile. A beneficiare di una scrittura tesa nel tenere a bada gli eccessi è un rigenerato Hansi Kürsch, prodigo di armonie vocali che riescono a dispiegarsi in tutta la loro enorme estensione grazie all’alleggerimento delle partiture e a un utilizzo dei cori al di fuori dei ritornelli decisamente meno frequente.

Libero, dunque, dallo spirito declamatorio dei recenti LP e da rigide trappole concettuali, con testi che prendono spunto – benché non unicamente – da fonti fantasy e sci-fi (The Crucible, The Kingkiller Chronicle, The Stormlight Archives, Battlestar Galactica, The Leftlovers, The Witcher), l’album si fa veicolo di un power massiccio ed esplosivo ancorché raffinato, nel cui grembo anche i brani segnati da un maggior taglio prog/symphonic non soffocano nella copiosità delle sovraincisioni, ma ne sfruttano al meglio il fattore contrastivo. La coppia di apertura formata da “Deliver Us From Evil” e “Damnation”, priva di qualsivoglia preambolo e che appare ricavata dallo stesso materiale di “Somewhere Far Beyond” e in generale dei platter dei ‘90, diffonde una regalità barbarica e incalzante, capace di tracimare in pura epopea nella successiva “Secrets Of The American Gods”, basata sul quasi omonimo romanzo di Neil Gaiman. 

Lo speed aerodinamico di “Violent Shadows” e il drammatico heavy a combustione lenta di “Life Beyond The Spheres” mostrano quanto le asce di André Olbrich e Marcus Siepen riescano a suonare di grande incisività sia nella pura irruenza sia durante i passaggi più articolati perché non costrette a defilarsi per la roboante presenza delle orchestrazioni. “Architects Of Doom”, d’altro canto, combina strofe urgenti a refrain sfumati ed espansivi, laddove la malinconica ballad “Let It Be No More”, dedicata al padre defunto, consente al singer di mostrare il suo lato introspettivo e vulnerabile, malgrado la traccia arranchi faticosamente invece di imporsi per mezzo delle emozioni che vorrebbe trasmettere.  Con “Blood Of The Elves” si torna a picchiare durissimo prima che la cinematica “Destiny” chiuda i battenti del lotto, trasportando l’ascoltatore nell’inquietante mondo fiabesco de La Regina Delle Nevi di Hans Christian Andersen.

In “The God Machine” i Blind Guardian recuperano un DNA metal che sembrava ormai definitivamente impigliato nelle trame magniloquenti ordite in quest’ultima decade, pervenendo a un equilibrio e a un’omogeneità che ricorda, con le debite proporzioni e le molte virgolette, il magnifico e inarrivabile “Nightfall In Middle Earth”. Un nuovo e convincente inizio per i bardi di Krefeld, figlio virtuoso di un glorioso passato.

Tracklist

01. Deliver Us from Evil
02. Damnation
03. Secrets Of The American Gods
04. Violent Shadows
05. Life Beyond The Spheres
06. Architects Of Doom
07. Let It Be No More
08. Blood Of The Elves
09. Destiny

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