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Emma Ruth Rundle – Engine Of Hell

Emma Ruth Rundle non è mai stata un’artista dalla personalità semplice o banale. Dal principio della sua carriera, la cantautrice statunitense ha dato vita a moltissimi progetti, sempre diversificando approccio e metodo, esplorando i diversi aspetti della propria arte. Dal post-rock e le tendenze shoegaze espresse con i Red Sparrows e i Marriages, fino alle suggestioni puramente metal del lavoro con i Thou, Rundle ha nel frattempo dato vita a quattro album solisti, nei quali folk, rock e distorsioni rumorose si alternano andando a formare un canovaccio sul quale dipingere la propria interiorità.

Pur mettendo nuovamente in primo piano quest’ultimo aspetto, risulta quasi traumatico ascoltare “Engine Of Hell”, un album in cui compaiono solo voce, piano e chitarra acustica, scritto e suonato da un’artista che ha basato la sua carriera su strumenti elettrici, flirtando spesso con il noise. Rundle abbandona completamente le distorsioni e i suoni pieni di “On Dark Horses”, per andare a incidere una serie di canzoni devastanti, che, attraverso la rielaborazione di una serie di traumi vissuti durante l’infanzia, mostrano nero su bianco puro dolore ed emotività, senza filtro alcuno.

Registrato interamente dal vivo – con tutte le piccole imperfezioni del caso volutamente non corrette per non andare a compromettere la carica emotiva del lavoro –, “Engine Of Hell” è un album per pochi, e allo stesso tempo un album per tutti. È un album per pochi, perché si tratta di un viaggio non semplice da affrontare, soprattutto dal punto di vista emozionale, tanto è il dolore espresso dai versi e dalle note incise. È un album per tutti, perché l’analisi e l’elaborazione di questo dolore perpetrata dall’artista, può essere compresa da chiunque. E se forse risulta difficile approcciare un lavoro così scarno (permetteteci di usare questo termine) dal punto di vista musicale, ci vogliono solo pochi secondi per assimilare brani così crudi nella propria semplicità.

  Photo credits: Bobby Cochran

In assenza di una tempesta sonora, a investire l’ascoltatore è un uragano emotivo scaturito dalle note solitarie e da una voce fragile e risoluta, di livello eccezionale e capace di scavare nel profondo al fine di esprimere i propri tormenti interiori. Rundle canta strepitando, sussurra, donando sfumature e colore (spesso bianco e nero) alla performance: tra un verso e l’altro si riesce a sentire il suo respiro, come se l’animo ferito volesse fuoriuscire dal corpo e portare il suo urlo carico di sofferenza attraverso le corde pizzicate della chitarra e quelle martellate del pianoforte. Tocchi fisicamente leggeri, che alle orecchie e al cuore pesano come macigni.

Si parla dei traumi dell’artista, ma si parla anche di tutti noi. Si parla della mancanza di una persona cara, che nel caso specifico aveva regalato ad una piccola Emma il suo primo pianoforte, prima di andarsene davanti ai suoi occhi (“Body”). Si parla anche di ricordi felici, come il ballo insieme ad un caro amico, entro cui chiudersi nei momenti più difficili mentre affrontiamo la vita (“Dancing Man”). Si parla di come l’amor proprio dovrebbe essere la priorità, il centro della nostra esistenza, ma invece rimane sempre relegato sotto strati di privazioni e negatività (“Blooms Of Oblivion”, “Citadel”). Si parla di come spesso sia più semplice soccombere a questo vortice emotivo (“The Company”, “Razor’s Edge”).

Sarebbe bello parlare di un viaggio epifanico, dal lieto fine. Ma da “Return” a “In My Afterlife” (in cui la cantante si immagina fluttuante nello spazio al termine della propria esistenza), quello che prevale è solo il bisogno di elaborare, affrontare ed esprimere il vuoto interiore. Non ci sono insegnamenti, niente catarsi finale, solo un magnifico viaggio attraverso il dolore. Non possiamo immaginare quale sarà la destinazione, ma, una volta finito l’ascolto immersi nella vostra interiorità, solo una è la certezza: non sarete la stessa persona che ha premuto play.

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