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All’Ippodromo La Maura continua la rassegna musicale più attesa dell’estate milanese. 65mila persone presenti a questa giornata che, come la precedente, è puramente all’insegna del rock, in un mix ancora più variegato del solito: dall’Italia all’America passando per il Regno Unito, dal jazzcore alla psichedelia all’alternative più o meno heavy, quella di oggi è senza dubbio una lineup da non dimenticare.

Studio Murena

Gruppo milanese formato nel 2018 da studenti di Conservatorio, gli Studio Murena aprono il live alle diciassette in punto con un set di circa mezz’ora, nel quale hanno modo di mostrare la loro poliedricità. Con due album all’attivo, di cui un self-titled e uno uscito questa primavera, “WadiruM”, la loro proposta musicale fonde jazz, rap, funk ed elettronica, in un connubio che non riesce da subito a catturare l’attenzione dei presenti, forse straniti da un sound così particolare. Col passare del live, tuttavia, sono sempre di più le teste che si muovono a tempo, con incitamenti provenienti dalle prime file; nel frattempo la band ringrazia Tommaso Colliva – già produttore storico dei Muse e membro dei Calibro 35 – per aver lavorato alla produzione di “WadiruM”. Decisamente da tenere d’occhio.

Primal Scream

Ci spostiamo in Scozia per un altro gruppo, molto più longevo del precedente (che del resto era l’unico under 30; tutti gli altri hanno carriere pluridecennali), ma con cui condivide come fattor comune la fusione di generi e il grande eclettismo. I Primal Scream portano sul palco degli I-Days un’esibizione di settantacinque minuti in cui c’è tutto: il soul anni ‘60, il blues, il pop, la psichedelia (non manca, per fortuna, qualche perla del capolavoro “Scremadelica”). La formazione attuale della band di Glasgow è spalleggiata da un coro gospel, nonché da due turnisti, Alex White al sax e Terry Miles alle tastiere; più che una band, paiono un collettivo, il che è assolutamente positivo per la riuscita live delle canzoni, le quali acquistano un senso di grandiosità nostalgica ed eterea. Nessuno dal pubblico si scatena – sarebbe quasi fuori luogo –, come del resto non si scatenano nemmeno i membri del gruppo, persi nella musica nei loro eleganti completi verdi e turchesi (solo Bobby Gillespie, armato di maracas, si muove per il palco incitando gli spettatori). Un bellissimo momento per chi già li ascoltava, e un ottimo biglietto da visita per chi non ne aveva mai sentito parlare.

Skunk Anansie

Se la prima metà del festival è stata contraddistinta dallo sperimentalismo, nella seconda a dominare incontrastata è la pura energia. Si riparte in quinta, infatti, alle venti meno un quarto, con una celebre citazione de “La fattoria degli animali” di George Orwell: “All animals are equal, but some animals are more equal than others.” Gli Skunk Anansie arrivano sul palco, iniziano a suonare “This Means War”, parte l’headbanging sfrenato.

Il set della band londinese è a dir poco esplosivo e comprende tutti i suoi maggiori successi; si sente la mancanza di alcuni brani dei primi anni – come “Intellectualise My Blackness” o “I Can Dream”, immancabili nelle loro date da headliner –, ma del resto in uno slot da opener a una band da stadio il tempo è meno e le priorità vanno date alle hit. Mentre la parte strumentale del gruppo – Ace alla chitarra, Cass Lewis al basso, Mark Richardson alla batteria – è coesa e non sbaglia un colpo, Skin non può che attirare su di sé l’attenzione del pubblico. Spalleggiata da Erica Footman come seconda voce, la frontman del gruppo si muove per il palco come se fosse suo, vulcanica quanto basta per dare una scossa anche a chi non è li per la sua band: salta in giro, fa crowdsurfing, scatena il pogo, guarda in faccia i suoi spettatori e ci interagisce di continuo fra un brano e l’altro, raccontandone occasionalmente il significato. Verso la fine del set, l’atmosfera si fa più tranquilla con la stupenda “Hedonism”, indubbiamente la più conosciuta dai presenti — il ritornello, in cui Skin lascia loro il microfono, ne è la dimostrazione. Dodici canzoni sono troppo poche, la voglia di risentirne altrettante è forte.

Setlist

This Means War
Because Of You
I Believed In You
Twisted (Everyday Hurts)
Weak
My Ugly Boy
God Loves Only You
Hedonism (Just Because You Feel Good)
Secretly
Piggy
Tear The Place Up
Charlie Big Potato

Red Hot Chili Peppers

Quarantacinque minuti di pausa, il sole si avvia lentamente al tramonto. Sulle facce dei presenti, nel frattempo aumentati a dismisura, sono dipinti sguardi sempre più felici ed entusiasti per quello che arriverà di lì a poco; l’area vip si riempie di influencer e personaggi conosciuti e persino Skin, dismessi gli abiti di scena, compare sotto al palco per assistere allo spettacolo. Si fanno le ventuno e trenta: Chad Smith saluta il pubblico, Flea arriva facendo la verticale, John Frusciante entra silenziosamente, Anthony Kiedis in sfavillanti bermuda di Playboy si unisce al gruppo tra enormi ovazioni, saltando sul palco dopo due minuti di jam session. Tutto nella norma, rassicurante come solo la familiarità sa essere.

I Red Hot Chili Peppers suonano per una buona ora e mezza, sorprendendo in positivo chi temeva un set molto più corto (come accaduto alla loro ultima apparizione in Italia, al Firenze Rocks 2022). I tre musicisti del gruppo sono energici come al solito, al netto dell’età che avanza; anche Kiedis, nonostante il tutore a una gamba, è in forma, persino più intonato delle aspettative. Talvolta nella band è percepibile un certo distacco rispetto al pubblico, la vaga distrazione di un gruppo che ha raggiunto i quarant’anni di carriera e per cui suonare è ormai divenuto un processo automatico. “Ringrazio gli Skunk Anansie per avere aperto per noi, e anche gli altri, anche se non so chi siano” dice Flea con leggerezza, mentre Kiedis ironizza sui residenti della zona del festival: “Chissà se ci sentono da quelle case laggiù, la prossima canzone la dedichiamo a loro.”

A prescindere dalle loro interazioni (o dalla scarsità delle stesse) con il pubblico, ad ogni modo, quest’ultimo non sembra curarsene, preso com’è dal cantare a squarciagola le canzoni più iconiche della band. Si salta con “Around The World”, si piange con “Scar Tissue”, si balla con “Otherside” e con “Californication”, mentre un forte senso di affetto permea l’atmosfera  dell’Ippodromo. Grandi assenti dalla scaletta “Can’t Stop” in apertura e “Under The Bridge” nell’encore, il che è tuttavia compensato dalla presenza della stupenda “Wet Sand”, perla rara nei live della band. “Black Summer” si distingue dagli altri brani degli ultimi due album, durante i quali sono gli spettatori ad apparire più distanti, mentre a chiudere il set vi sono due pietre miliari di “Blood Sugar Sex Magik” — “I Could Have Lied” e “Give It Away”, cantate dal pubblico con enormi sorrisi e il cuore traboccante di nostalgia. D’altra parte, nonostante tutto, i Red Hot rimangono una salda certezza: dopo una giornata passata a spaziare fra mille generi musicali, il loro alternative rock è un meraviglioso ritornare a casa.

Setlist

Around The World
Scar Tissue
Snow ((Hey Oh))
Eddie
I Like Dirt
Otherside
Me & My Friends
Wet Sand
Whatchu Thinkin’
Carry Me Home
Californication
Black Summer
By The Way
I Could Have Lied
Give It Away

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