NUOVE USCITERECENSIONI

Lonely Robot – A Model Life

Che la musica aiuti a superare i momenti di difficoltà imposti dal quotidiano appare cosa nota, eppure tradurla in dischi efficaci non appare altrettanto scontato. La parola mediocrità, però, non sembra appartenere al vocabolario di John Mitchell, tanto che le varie band a cui presta un talento tecnico/compositivo con pochi eguali, conservano costantemente livelli medio-alti, confermandosi portabandiera di un neoprogressive policromo e convincente (Arena, Frost*, It Bites, Kino). Semmai resta da chiedersi come il polistrumentista britannico disponga delle forze e del tempo per ottemperare anche all’attività di stimato produttore e a quella di sound engineer tra le mura dei suoi Outhouse Studios, senza dimenticare il coinvolgimento economico-gestionale nell’esclusiva “White Star Records”. Ciononostante, un po’ alla maniera del dolce dopo una cena abbondante, l’albionico riesce a ritagliarsi dei momenti nel solo project Lonely Robot, oggi giunto al quinto album con “A Model Life”.

Se la trimurti formata da “Please Come Home”, “The Big Dream” e “Under Stars” si basava sui viaggi interplanetari di un astronauta dietro cui comunque aleggiavano considerazioni generali sull’esistenza terrena, lo scorso “Feelings Are Good”, benché ancora gravato da scorie space, abbandonava le maglie del concept fantascientifico a favore di un approccio decisamente più personale. Il nuovo LP, invece, mette completamente a nudo la quintessenza umana del robot solitario, facendone affiorare in superficie rabbia, rimpianti, desideri e reminiscenze da condividere con gli ascoltatori, sentimenti avvolti in un prog/pop fine e accattivante. L’espressività delle chitarre, il pathos timbrico struggente di Mitchell, gli arazzi tessuti dalle tastiere e dal pianoforte elettrico CP-80, gli arrangiamenti lussureggianti, il determinante – benché a distanza – contributo alla batteria del fido Craig Blundell, conferiscono una corposità evanescente a dieci tracce confessionali che potrebbero toccare tanto le nostre vite quanto le esperienze individuali dell’autore.

Costruita su riff luccicanti e un ritmo al galoppo in 6/8, “Recalibrating” è una composizione leggera e ariosa dal ritornello molto orecchiabile, con un conclusivo assolo gilmouriano che appone il sigillo catartico a un legame di coppia rottasi dopo sedici anni. “Digital God Machine” costituisce un sincero e angoscioso sfogo verso i troll nascosti nell’anonimato concesso da Internet, che inizia con un “Hello, Helloà la Roger Waters prima di virare in una sorta di joint venture fra il Peter Gabriel di “Biko” e lo Sting post-Police, con il violoncello suonato per mezzo di un pedale distorsore capace di aggiungere squarci di eterea ambiguità al pezzo. Rispuntano i Pink Floyd in “Species In Transition”, mentre si torna alla vaporosità rock dell’opener con “Starlit Stardust”, brani entrambi imperniati sulle problematiche relazionali nell’epoca delle maschere offerte dai social media. Cupa, frastagliata, stridente, percorsa da filtri vocali, sintetizzatori siderei e trafitture di Farfisa, “The Island Of Misfit Toys” richiama da vicino il mood algido della passata trilogia, laddove la successiva “A Model Life”, comunica  ottimismo e solarità, attraverso beat in stile Phil Collins e una combinazione bridge/middle 8 semplicemente magistrale. La piano-driven e breve “Mandalay”, titolo che si riferisce alla tenuta costiera poi andata in fiamme del film “Rebecca” di Alfred Hitchcock, e la malinconica euforia di “Rain Kings”, meno brillanti nel loro opaco manierismo, preparano il campo a una coda volta a condurci entro il cuore autobiografico dell’opera.

Un’atmosfera inquietante e ipnotica, accentuata dalla presenza simultanea di archi, marimba, percussioni ossessive e voluminose raffiche di sei corde, contrassegna “Duty Of Care”, con John che canta il mantra protettivo “Just keep moving, Just keep breathing” contro gli abusi del padre adottivo alcolizzato. Nella chiusa “In Memoriam”, il songwriter inglese continua a scoperchiare il proprio vaso di Pandora di ricordi riguardo il travagliato rapporto con una figura genitoriale maschile ormai da tempo defunta e modello da evitare con fermezza qualora si intenda costruire una famiglia sana e amorevole. Introdotta da un organo funebre, la pista gradualmente cresce d’intensità, si intravede un vero senso di speranza emergere dalle macerie del passato, riflesso dal volo celestiale degli strumenti, ma il finale, anziché grandioso, sfuma meditabondo e purificatore, in linea con i toni intimisti del platter.

 “A Model Life” rappresenta, probabilmente, un passo indietro rispetto all’originalità dell’Astronaut’s Trilogy, oltre a rassomigliare, in alcuni punti, alle realtà parallele It Bites e Kino. I Lonely Robot, però, guadagnano in accessibilità e calore, rilasciando un gradevole concentrato melodico per il quale John Mitchell ha attinto, forse mai così a fondo, al serbatoio emotivo dell’inconscio collettivo e individuale. Una atto di liberatoria scorrevolezza.

Tracklist

01. Recalibrating
02. Digital God Machine
03. Species In Transition
04. Starlit Stardust
05. The Island Of Misfit Toys
06. A Model Life
07. Mandalay
08. Rain Kings
09. Duty Of Care
10. In Memoriam

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