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Meshuggah – Immutable

Parlare di una band come i Meshuggah è come evocare una potente divinità tutelare del metal mondiale: una band che da oltre trent’anni detta legge sulla scena tracciando una propria, personalissima strada che pochi riescono a seguire senza scadere nella banale imitazione. E trovandoci di fronte al loro nono lavoro in studio, a sei anni dal precedente capolavoro “The Violent Sleep Of Reason”, le aspettative sono a livelli decisamente elevati.

Gli ultimi anni, tuttavia, non sono stati facili per la band svedese: a partire dall’abbandono temporaneo del chitarrista Fredrik Thordendal, rientrato l’anno scorso dopo una pausa durata quasi 5 anni, fino alla pandemia che ha fortemente rallentato i lavori sull’ultimo disco e ai recentissimi problemi di salute del batterista Tomas Haake che hanno portato all’annullamento del tour europeo previsto prima per la fine del 2021 e poi per la primavera 2022. Ed è forse tutto questo che sta alla base della genesi di “Immutable”, questo nuovo, pesantissimo album, che mostra una band che nonostante tutto non si è fermata musicalmente ma anzi si è lasciata totalmente andare a nuove sperimentazioni, a un sound ormai interiorizzato ma sempre in divenire.

L’apertura del disco è affidata a “Broken Cog”, un brano di fortissimo impatto: un pesante ritmo al limite del tribale fa da sfondo a un crescendo cupo, sottolineato dalla linea vocale che resta quasi sussurrata per la maggior parte della durata della canzone. Solo qualche nota di chitarra fa da contrappunto al riff portante della canzone che si trascina mastodontico fino all’assolo, un incontro di note dissonanti che si intrecciano rincorrendosi tra loro. L’esplosione vera e propria arriva quando meno se lo si sarebbe aspettato sul finire del pezzo, con il ruggito di Jens Kidman che si interseca con la base sonora dei compagni in una potente apoteosi. È il momento di “The Abysmal Eye”, il primo singolo tratto dall’album e sicuramente il brano che ha maggiormente acceso le aspettative dei fan della band svedese su “Immutable”. Si tratta infatti di un pezzo in puro stile Meshuggah e che richiama molto il disco precedente, con la batteria che attacca le orecchie dell’ascoltatore come una mitragliatrice, mentre gli strumenti a corda dipingono un fosco muro sonoro che si consolida nota dopo nota.

Con la successiva “Light The Shortening Fuse” la compagine svedese scatena definitivamente la propria potenza di fuoco con un pezzo dal suono coinvolgente e al limite del melodico, sempre ovviamente nel registro Meshuggah: Kidman tira fuori una performance vocale da manuale, mentre i riff di chitarra trascinano il brano su solidi binari che alla fine, inaspettatamente ma non troppo, svoltano totalmente nell’ipnotico e ossessivo breakdown finale. L’attenzione cala leggermente con la successiva “Phantoms” che si incastona nel mood complessivo del disco ma non decolla del tutto e forse va a perdersi nell’ascolto generale perché surclassata da “Ligature Marks”: un rombo primordiale di plumbei accordi fa da riff portante a un brano che sfiora quasi il doom, con basso e batteria che se la prendono comoda, creando una base sonora impeccabile ma meno presente che negli altri brani, per far risaltare la voce di Kidman che è devastante come una tempesta di fulmini e i vari solo di chitarra più spaziali e melodici.

Ma il relax dura poco, visto che con “God He Sees In Mirrors” tornano i controtempi e i doppi pedali rampanti di Haake, insieme a un riff che è un carro armato sonoro e non lascia spazio a nulla nelle orecchie dell’ascoltatore: la commistione delle 8 e 9 corde di Thordendal e Hagström è un terremoto sonoro che con le tonalità ribassate sfiora le viscere del sottosuolo.

A fare da spartiacque, ma soprattutto ad evolvere ulteriormente la complessità tecnica e sonica dell’intero lavoro è la strumentale “They Move Below”. Con oltre 9 minuti di durata, questo brano è la prova lampante non solo dell’incredibile talento dei cinque svedesi ma anche della maestria nel dosare sapientemente sicurezza e sperimentazione, un pezzo maestoso, da ascoltare e riascoltare per apprezzare a pieno la cura maniacale del dettaglio che i Meshuggah hanno messo in ogni singola nota del nuovo lavoro. “Kaleidoscope” riporta alla realtà con un riffing crudo e pieno di groove e una struttura più lineare, mentre “Black Cathedral” fa da breve intermezzo strumentale, ruggente come un potente motore in folle in attesa di innestare la marcia e ripartire con “I Am That Thirst”. Il brano è l’ultimo singolo rilasciato dalla band prima dell’uscita ufficiale ed è forse, tra i tre pezzi scelti come anteprima, quello meno convincente nel complesso, non rappresentando pienamente il lavoro di ricerca fatto con “Immutable”.

In chiusura, dopo la calma apparente di “The Faultess”, una doppietta di brani esplosivi: “Armies Of The Preposterous”, uno dei migliori di tutta la proposta, è una marea di suono ridondante e dissonante che si ritira e si infrange contro le rocciose scogliere della sezione ritmica, caratterizzate da una linea di basso incredibilmente ribassata e tenebrosa, mentre “Past Tense” è un’ultima strumentale che permette di riemergere a respirare dopo essere stati sommersi da un mare in tempesta, con solo gli strumenti a corda a intrecciarsi in una serie di plumbei e malinconici arpeggi.

“Immutable” è un disco che non rende giustizia al proprio nome perché il materiale proposto è invece la prova che, da più di trent’anni, i Meshuggah hanno ancora voglia di osare e di sperimentare, di uscire dal seminato e, sempre e comunque, dettare le proprie condizioni per detenere il trono di giganti del metal. Sedici brani, oltre un’ora di musica, un album che è come un buon vino, necessita di tempo e di ascolti per essere apprezzato in tutte le sue molteplici sfaccettature.

Tracklist

01. Broken Cog
02. The Abysmal Eye
03. Light The Shortening Fuse
04. Phantoms
05. Ligature Marks
06. God He Sees In Mirrors
07. They Move Below
08. Kaleidoscope
09. Black Cathedral
10. I Am That Thirst
11. The Faultless
12. Armies Of The Preposterous
13. Past Tense

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