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Afterhours – Hai Paura Del Buio?

E non è dolce essere unici
Ma se hai un proiettile ti libero
Gli errori veri son più forti poi
Quando fan finta di esser morti, lo sai

Acluofobia: così viene definita una delle paure più comuni dell’essere umano. Il timore dell’ignoto, di ciò che non conosciamo e che forse non vogliamo nemmeno conoscere. Negli angoli più tetri del mondo (o dell’anima), si potrebbe celare qualunque cosa e sta solo a noi stessi scoprire o no tutto ciò. Se mai decidessimo di addentrarci, sapremmo che l’entrata alle tenebre è accompagnata da una chitarra scordata e da alcune note di sintetizzatore.

Inizia così “Hai paura del buio?” degli Afterhours, considerato dalla critica unanime uno degli album più importanti della storia del rock italiano. Manuel Agnelli, Xabier Iriondo e Giorgio Prette si ritrovano a metà degli anni ’90 con 4 album alle spalle, dei quali il più recente “Germi” (Vox Pop, 1995) riscuote un certo successo. Tuttavia, il gruppo milanese vede i propri sogni infrangersi quando l’etichetta Vox Pop chiude i battenti nel 1997. La mancanza di un contratto discografico, unita a disoccupazione e delusioni amorose, è ciò che plasma il clima di scrittura del loro lavoro successivo. Il nuovo materiale convince la neonata etichetta Mescal, che lo pubblica il 20 ottobre 1997.

Fin dalle primissime parole pronunciate da Agnelli, il disco si presenta come un inno alla ribellione, all’anticonformismo più esplicito e sprezzante. In un momento storico in cui il rock mondiale è in continuo mutamento (negli ultimi 5 anni si erano accese e già spente due grandi meteore musicali, quella grunge e il britpop), la scena italiana è dominata dall’indie rock e gli Afterhours si impongono con questo album come band di riferimento (a tal punto che quasi 20 anni dopo il disco verrà consacrato da un’edizione rielaborata, ricca di ospiti italiani e internazionali).

“Hai paura del buio?” si presenta da un lato come un lavoro molto personale (Agnelli ne è produttore e compositore principale di testi e musica), dall’altro come il riassunto eterogeneo di conquiste passate e obiettivi futuri di una band che ha già più di un decennio alle spalle. Ogni brano presenta una sfumatura diversa, un po’ à la The Beatles del “White Album”. Ed è proprio al quartetto inglese che i nostri si rifanno nella seconda traccia “1.9.9.6.”. Terminata la brevissima intro che dona il titolo all’album, un giro di chitarra acustica introduce una critica sociale carica di psichedelia, con un Agnelli che bestemmia e si rivolge ad una borghesia edile imitando John Lennon.

I toni si accendono subito con uno dei brani divenuti più celebri di tutta la discografia del gruppo: “Male di miele” è un pezzo grunge che non ha nulla invidiare alla passata scena di Seattle: la batteria di Prette è incalzante, le chitarre hanno la giusta ruvidità e il tutto è impreziosito da violini e linee vocali dissonanti. Dopo il binomio ancora ben riuscito grunge + violini di “Rapace”, una quasi-power ballad in cui Agnelli profetizza di cavalieri sieropositivi e varie figure animalesche, “Elymania” ci mostra finalmente il lato più crudo della band, del suo frontman in particolare, il quale parla dell’attrazione fatale per una donna (Elisabetta Imelio, la compianta bassista dei Prozac+) in modo ossessivo (“Giocattolo vibrante in te/Cola miele che sa di me”), in un brano questa volta arricchito di effetti elettronici.

I toni cambiano drasticamente con “Pelle”, uno dei momenti più intimi dell’album: chitarre molto lontane introducono la vera power ballad del disco, dove il gruppo si avvicina di più al grunge ricercato degli Smashing Pumpkins. Qui i violini la fanno da padrone, a sottolineare la disperazione per la perdita di un amore (“Cerco su di me la tua pelle che non c’è”). A un cambio drastico ne sussegue un altro. “Dea” è essenzialmente un pezzo hardcore punk. Se Agnelli ci ha appena mostrato il suo lato più fragile e (a modo suo) romantico, qui la sofferenza si trasforma in menefreghismo, espresso sia dal testo, sia dalla musica, che non sembra volersi fermare davanti a nulla.

A spezzare il ritmo troviamo “Senza finestra”, coperta da chili di psichedelia e da suoni noise che distorcono ogni cosa, e “Simbiosi”, una delle tracce più controverse dell’album. I dolci (ma sempre espliciti) versi che raccontano di un rapporto sessuale sono alternati da un dialogo confuso tra personaggi (Agnelli racconterà in seguito di aver registrato di nascosto alcuni suoi amici). “Voglio una pelle splendida” è la traccia di punta del disco: perfettamente orecchiabile per essere un singolo, ma mai scontata. “Prette” e “Iriondo” (soprattutto Prette) ci insegnano come una sola idea possa proseguire senza variazioni e mai stancare. Agnelli si dichiara colpevole e chiede aiuto, anche se sa che ricadrà in errore, forse perché non riesce a smettere o forse perché non vuole farlo. Seguono la strumentale “Terrorswing”, dove i nostri si rifanno al noise rock più classico, e la dichiarazione violentemente punk di “Lasciami leccare l’adrenalina”.

Il noise rock torna con “Punto G”, dove la sensualità la fa da padrona e la ridondanza termina in un climax caotico di voci, un po’ armonizzate, un po’ distorte. Dopo un altro assalto dal sapore noise/grunge (“Veleno”), il trio si mette l’abito buono, posa plettri e bacchette e ci regala “Come vorrei”. Un pianoforte e degli archi accompagnano il frontman in una dedica a Edda (alias Stefano Rampoldi, ex-voce dei Ritmo Tribale). “Questo pazzo pazzo mondo di tasse” è dominata dall’ambiguità: da una parte abbiamo batteria, chitarre ed elettronica che plasmano un ambiente ostile, dall’altra i violini e la voce che sembrano dilettarsi in spensieratezza. Un intro psichedelica e angosciante quella di “Musicista Contabile”, che non fa altro che peggiorare in angoscia all’arrivo delle voci deliranti e prosegue in un assolo volutamente fastidioso. “Sui giovani d’oggi ci scatarro su” ci riporta in terreno punk per il sociale, dove Agnelli se la prende coi figli di papà, che a volume bassissimo sembra accennare un breakdown subito prima di terminare. A chiudere l’opera troviamo “Mi trovo nuovo”, che vede come protagonisti piano e voce, tutto ancora una volta intriso di delirio. Cosa poteva esserci di meglio del racconto di un ménage à troix al termine di un viaggio del genere? La risposta ce la darà la versione rinnovata del 2014, che aggiunge in conclusione l’ancora più azzeccata, e purtroppo rimasta in sordina, “Televisione”.

Insomma, come già detto, il disco è un’opera eterogenea, a tratti bizzarra e ostica per chi è alla ricerca di sonorità più semplici, ma sicuramente ricca di originalità, che, a distanza di 25 anni, ha ancora molto da insegnare alle nuove generazioni, a chi vuole intraprendere la strada dell’indie (quello vero), ma non solo. “Hai paura del buio?” ci insegna che in effetti le tenebre sono un ottimo posto in cui gettarsi.

Tracklist

01. Hai paura del buio?
02. 1.9.9.6.
03. Male di miele
04. Rapace
05. Elymania
06. Pelle
07. Dea
08. Senza finestra
09. Simbiosi
10. Voglio una pelle splendida
11. Terrorswing
12. Lasciami leccare l’adrenalina
13. Punto G
14. Veleno
15. Come vorrei
16. Questo pazzo pazzo mondo di tasse
17. Musicista contabile
18. Sui giovani d’oggi ci scatarro su
19. Mi trovo nuovo

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