Dopo le Super Deluxe Edition dei mesi scorsi, tocca adesso a “Technical Ecstasy” (1976) ricevere, via BMG, la medesima – e sontuosa – riverniciatura, benché non si tratti certo del platter più osannato dei Black Sabbath. Una formazione, quella della seconda metà dei Seventies, che sembrava sul punto di sgretolarsi irreparabilmente, considerate soprattutto le difficoltà individuali di Ozzy, immerso fino ai capelli in problemi di alcol e droga che iniziavano a diventare ingestibili e deleteri tanto a livello di rapporti interpersonali quanto sul piano artistico. Nonostante la comune dipendenza dalla cocaina, le sue condizioni, rispetto alla tossicomania dei compagni di viaggio, degenerarono a tal punto che il cantante decise di lasciare definitivamente il gruppo a seguito dell’uscita di “Never Say Die!” (1978): una perdita in qualche modo terapeutica per gli inglesi, che riuscirono, con l’ingresso di Ronnie James Dio, a prolungare una carriera prossima alla liquefazione e a ritemprarsi dal profondo.
I grossi problemi interni, acuiti da tour massacranti, diatribe giudiziarie con avvocati, manager e profittatori d’ogni risma e da una vita quotidiana a base di lussi ed eccessi, non impedirono comunque ai britannici di registrare un disco di inediti tra i Criteria Studios di Miami e i Sound Interchange di Toronto, avvalendosi della collaborazione, in sede produttiva, di Mike Butcher. Malgrado il notevole successo commerciale raggiunto nel corso degli anni, il settimo LP del quartetto riscosse all’uscita tiepidissimo gradimento sia dai critici che dai fan, entrambe le fazioni già poco convinte delle ardite sperimentazioni presenti in “Sabbath Bloody Sabbath” (1973) e “Sabotage” (1975). Dubbi aggravati da un artwork discutibile, forse il peggiore realizzato dai designer di Hipgnosis.
Ancora oggi, numerosi addetti ai lavori e semplici appassionati continuano a considerare “Technical Ecstasy” il full-length meno riuscito dell’era Osbourne, il segnale inequivocabile della decadenza creativa di un gruppo allo sbando. In realtà, tenendo ferma l’insuperabile grandezza dei tre lavori d’abbrivio, sappiamo bene che da “Vol. 4” in poi i Sabbath decisero di modificare gradualmente una formula che, già nel pur superbo “Master Of Reality”, cominciava a mostrare un’infida standardizzazione di genere. Con le orecchie spalancate su ciò che musicalmente accadeva loro intorno, Tony Iommi e soci iniziarono ad alleggerire i brani e a inserire tastiere e sintetizzatori, trasformandosi in un combo “diverso” che, senza tradire completamente il sound oscuro delle origini, cercava nuovi stimoli, nuove strade e, elemento da non trascurare, nuovi fedeli ascoltatori.
Se valutati da questa prospettiva, si possono, allora, apprezzare pezzi hard rock dagli arrangiamenti ai confini del pop come “Back Street Kids”, “Gipsy” e “Rock ‘N’ Roll Doctor”, che continuano a suonare freschi e divertenti, prendendosi beffe del tempo trascorso; oppure lasciarsi avvolgere dalle blandizie beatlesiane di “It’s Alright” – con un ottimo Bill Ward al microfono -, farsi trascinare dalla linea di basso funky à la Stevie Wonder di “All Moving Parts (Stand Still)”, levarsi in piedi per elogiare le partiture orchestrali della malinconica e cupamente disneyana “She’s Gone” e le influenze progressive di “Dirty Women”. “You Won’t Change Me”, richiama, in parte, la cupa pesantezza dei vecchi classici, ma è un’atmosfera frizzante a dominare la scaletta, una scioltezza cui rende giustizia, ora, il remix approntato con mano sagace da Steven Wilson. Aggiunge pepe al box-set una raccolta di outtakes e versioni alternative delle canzoni del lotto, che, oltre a rappresentare un esilarante contenitore di battute del Madman, risultano utili per ricostruirne la storia compositiva. Ultimo cadeau, una pleiade di estratti dal Live World Tour del 1976-1977, al termine del quale Ozzy abbandonò la nave una prima volta: la performance dal vivo, dignitosa, non nasconde la netta sensazione di trovarsi di fronte ai titoli di coda del periodo aureo.
Scritto da un’altra tipologia di band, “Technical Ecstasy” avrebbe ottenuto maggiori riconoscimenti; a distanza di quasi mezzo secolo e collocato nel giusto contesto, l’album, pur non rappresentando la loro migliore espressione artistica, resta in ogni caso una testimonianza significativa del cammino tortuoso e camaleontico dei Black Sabbath.