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My Dying Bride – A Mortal Binding

Esistono gruppi, pochi in verità, la semplice menzione dei quali richiama non soltanto un suono specifico, ma un intero universo estetico. Trattasi del caso dei My Dying Bride, veterani di un death-doom dalle profonde scanalature gotiche capace di influenzare generazioni di band, attratte da un sound decadente e maestoso, facilmente associabile a immagini di mausolei in rovina e fiori vizzi. Con  trentacinque anni di carriera alle spalle e chissà quanti ancora davanti, i britannici rappresentano dei veri maestri nell’arte di scolpire vasti e ambiziosi monumenti alla sconforto, benché, a partire soprattutto da “For Lies I Sire” (2009), i livelli di ispirazione e i ritmi di rilascio non siano più stati i medesimi di un tempo, senza che questo, però, abbia compromesso in maniera irreparabile la qualità media degli album. “A Mortal Binding” sembra riportare il sestetto su binari un po’ meno avventurosi rispetto a un ultimo lavoro in studio condizionato da situazioni interne ed esogene molto complesse, responsabili di un esito finale che non brillava per compattezza e continuità compositive.

The Ghost Of Orion” (2020), seguito, otto mesi dopo, dall’EP “Macabre Cabaret”, germinò, infatti, dopo una serie di eventi quali, in ordine sparso, l’abbandono del chitarrista e co-fondatore Calvin Robertshaw, l’ingresso dietro le pelli di Jeff Singer, già batterista dei Paradise Lost, la gravidanza della bassista Lena Abé, l’addio dello storico producer Mags, il distacco dalla Peaceville Records, la grave malattia della figlia del singer Aaron Stainthorpe. Un disco, viste le circostanze, di buona fattura, ma che, malgrado i notevoli picchi emotivi, risultava torpido e sfilacciato in alcune parti. Il nuovo lavoro, invece, presenta una scrittura essenziale, sovente scarna se non addirittura austera, che abolisce le ricorrenti superfluità del predecessore a favore di un approccio vecchio stampo, in grado di consegnare agli ascoltatori l’abituale tracklist byroniana, uniformemente intrisa di secrezioni spettrali e uggiose. La stessa produzione rétro di Mark Mynett, per la seconda volta consecutiva in cabina di regia, conferisce la giusta consistenza umida all’insieme, uno spessore funebre che sembra avvolgere la cripta di due sposi il cui amore reciso dalla morte tenta disperatamente di sopravvivere.

Un LP, dunque, di foggia tradizionale, da cui traggono beneficio anche le linee vocali del frontman, che elimina, benché non del tutto, le sovraincisioni melodiche impiegate nello scorso full-length, preferendo tornare alle antiche variazioni dal discreto sapore teatrale, pronte a imboccare la strada del growl feroce nella tetra e “classica” “Her Dominion” o a esplodere in forme di tragica costernazione durante il flusso a ritroso di “The 2nd Of Three Bells”. I riff robusti e chiaroscurali di Andrew Craighan, il rinforzo ritmico dell’ascia di Neil Blanchett, la densità del basso, le pulsazioni regolari della batteria del redivivo Dan Mullins, i puntuali interventi alle tastiere e soprattutto al violino di Shaun MacGowan, collaborano a mo’ di concerto da camera tenuto sulle guglie di un duomo anglosassone, con effetti decisamente apprezzabili in termini evocativi. Dall’amara mestizia di “Thornwyck Hymn” ai passaggi meditabondi, quasi à la Triptykon, della suggestiva “Unthroned Creed”, dal cupo monolite “The Apocalyptist” alla seducente “A Starving Heart”, sino alla lentezza perpetua tinta di prog di “Crushed Embers”, forse non si viene mai davvero colti di sorpresa, sopraggiunge persino qualche momento vicino alla narcolessia, ma la quadratura delle canzoni e il loro sofferto e aristocratico ondeggiare tra doom, gothic e sotterranee abrasioni death pongono il lavoro quasi alle altezze di un “A Map Of All Our Failures” (2012).

Ogni disco dei My Dying Bride infonde la sensazione di calpestare un terreno familiare, quello di una malinconia che ammalia, circonda, innalza, soffoca, lasciando segni profondi nelle anime sensibili. “The apocalypse is always on the horizon”, ricorda Stainthorpe: considerato il frangente storico, prodigo di motivi per provare tristezza, “A Mortal Binding” ci invita a vivere appieno tale sentimento, cercando di amplificarne la portata piuttosto che impegnarsi a reprimerlo. Senza timore.

Tracklist

01. Her Dominion
02. Thornwyck Hymn
03. The 2nd Of Three Bells
04. Unthroned Creed
05. The Apocalyptist
06. A Starving Heart
07. Crushed Embers

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