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Bruce Dickinson – The Mandrake Project

Parlare di Bruce Dickinson non significa solo parlare di uno dei più iconici frontman dell’heavy metal, non significa solo affrontare una personalità dalle mille sfaccettature ed un artista dalle mille influenze. Parlare di Bruce Dickinson significa parlare di un uomo che ha vissuto una vita intensa e che, all’età di 66 anni e dopo una carriera unica nel suo genere, è totalmente padrone del proprio tempo. È proprio da questa libertà che è scaturito “The Mandrake Project“.

Un artista libero è però un artista che incute timore, sia in chi lo produce che in chi è chiamato poi ad analizzarne le opere: in entrambi i casi, infatti, non sai mai che cosa ci si troverà di fronte. “Tattooed Millionaire”, “Balls to Picasso”, “Skunkworks”, “Accident of Birth”, “The Chemical Wedding”, “Tyranny of Souls”: ognuno di questi dischi presentava influenze a sé stanti, spesso molto diverse da quell’heavy metal che ha innalzato Dickinson allo status di leggenda vivente. Forse anche sulla base di quanto ora scritto, non tutti i capitoli della sua discografia solista hanno ricevuto il plauso di pubblico e critica, ma questo non ha di certo impedito al frontman inglese, a quasi 20 anni di distanza dal suo ultimo album, di dare alle stampe l’album che ci accingiamo a recensire, essendo ben consapevoli che non si tratterà di un classico disco metal.

Veniamo subito accolti da “Afterglow of Ragnarok” e capiamo immediatamente come mai questo pezzo sia stato scelto non solo come apertura di “The Mandrake Project”, ma come primo singolo estratto: il riff moderno, moderatamente pesante di Roy Z è ficcante il giusto, capace di aprirsi in un chorus arioso, su cui la voce di Bruce Dickinson può sfoggiare quelle tonalità medio-alte che lo hanno reso celebre. Il ritornello è di quelli che si stampano subito in testa, e non stentiamo a credere che il brano in questione possa rappresentare l’opening ideale dei prossimi live del cantante britannico.

“Many Doors To Hell” riprende un po’ la linea tracciata da “Afterglow of Ragnarok”: ci troviamo su coordinate decisamente metal, che ha un vago sentore di “Tattoeed Millionaire”, con un Dickinson che, in questo caso, sfoggia la parte più alta del suo registro vocale che, ancora una volta, vince e convince.

L’approccio di “Rain On The Graves” è già molto diverso. Nei primi istanti del pezzo, Dickinson sembra quasi parlare all’ascoltatore (o al pubblico) ma, poco dopo, Roy Z e soci danno forma ad una canzone dal chiaro gusto ottantiano, lo stesso comunicatoci dal videoclip. Il pezzo in questione è il primo in cui fa nettamente capolino il lavoro di Mistheria, talentuoso tastierista italiano già da lunga data al servizio di Dickinson.

“Resurrection Man” è a sua volta una sorpresa: basso, tastiera e chitarra danno vita ad un’atmosfera da colonna sonora western, di quelle che abbiamo imparato ad amare nei film di Sergio Leone e che non saremmo stupiti di ritrovare nelle già citate mille influenze del frontman degli Iron Maiden. Il pezzo, istrionico come il suo autore, cambia spesso “pelle”, passando dalle sonorità indicate prima a momenti più groovy, al classico ritornello heavy, per poi ritornare al selvaggio west, diventando uno dei pezzi più lunghi ed articolati del disco.

Ad un primo ascolto, “Fingers In The Wounds” potrebbe sembrare la classica midtempo, con le tastiere che comunicano un mood malinconico, su cui Bruce può sfoggiare tutta la drammaticità di cui la sua ugola è dotata. Anche in questo caso, però, non manca una sorpresa: di punto in bianco, le atmosfere diventano orientaleggianti e, per circa un minuto, l’ascoltatore è trasportato in una fiaba de “Le mille e una notte”. Si tratta di un passaggio estemporaneo, ma che rappresenta un’ottima variazione sul tema, arricchendo un pezzo già di suo piuttosto valido.

Tra le tante sfumature di “The Mandrake Project”, non potevano di certo mancare quelle più maideniane che, in questo caso, sono quasi del tutto racchiuse in “Eternity Has Failed”. È praticamente impossibile non ricollegarsi a “The Book Of Souls” ed a “If Eternity Should Fail”, di cui il pezzo in analisi rappresenta la versione originariamente composta da Dickinson. Questa versione è più compatta e meno prolissa rispetto a quella presente nel disco della band britannica (circa un minuto e mezzo in meno), per forza di cose diversa strumentalmente, senza le cavalcate di basso di Harris ma con un Roy Z decisamente a suo agio e capace di non far rimpiangere il trittico Murray/Smith/Gers. La presenza di questo pezzo, oltre ad essere l’ennesima sorpresa, ci può forse dare un’idea sul tempo impiegato da Dickinson per ultimare i lavori di “The Mandrake Project”: e parliamo di veramente tanto, tantissimo tempo.

“Mistress Of Mercy”, col suo giro di basso accattivante ed il suo riff distorto e massiccio, è forse l’episodio più heavy del disco. Anche qui, il ritornello si stampa nella testa dell’ascoltatore, anche grazie all’ottimo lavoro di Roy Z, che non lesina tecnica e melodia. Siamo sicuri che anche questo pezzo sarà uno di quelli maggiormente proposti in sede live.

È arrivato il momento di rilassarsi un attimo e “Face In The Mirror” vuole essere esattamente quella ballad di cui ogni disco ha bisogno: pianoforte malinconico ed una voce capace di cavalcare questa atmosfera. Il brano, pur nel suo essere un po’ banale e scontato, pur non sorprendendo come i suoi predecessori, svolge il suo ruolo.

La volontà di stupire torna a farsi valere con il successivo “Shadow Of The Gods” che, dopo molteplici ascolti, è sicuramente l’episodio più vario ed ispirato di questo settimo lavoro in studio di Bruce Dickinson. L’ottima intro cesellata da Mistheria accoglie come meglio non potrebbe la voce del cantante inglese, regalando qualche minuto tra il sognante ed il malinconico, con delle melodie veramente degne di nota; verso la metà, invece, il brano subisce un’improvvisa accelerazione, capace di aggiungere quel pizzico di distorsione e groove che sa amalgamarsi alla perfezione ad una struttura che, fino a qualche secondo prima, sembrava portarci in tutt’altra direzione.

A “Sonata (Immortal Beloved)” è affidata la conclusione del disco e, a parere di chi vi scrive, si tratta forse del passaggio meno riuscito. Ci troviamo davanti ad un brano lungo poco meno di dieci minuti, dalla struttura strana, più simile ad un’esperienza sonora che ad una canzone nel senso più canonico del termine. Più che la sezione strumentale, è proprio la performance di Dickinson a non essere del tutto convincente, che sembra seguire l’ispirazione del momento, non riuscendo però a trovare quella continuità di cui qualsiasi pezzo ha bisogno; Roy Z e soci svolgono comunque un ottimo lavoro ma, anche dopo diversi ascolti, “Sonata” è difficile da metabolizzare, tanto da risultare quasi inconcludente.

Eccoci arrivati alla fatidica domanda: quanto vale “The Mandrake Project”? Il disco in questione, è bene chiarirlo, rappresenta al 100% il suo creatore e, quindi, necessita di più ascolti per essere assimilato. Tali ascolti ci hanno portato ad alternare momenti di grande coinvolgimento ad altri in cui siamo stati più disorientati; stavolta Dickinson sceglie di viaggiare attenendosi a coordinate heavy metal, ma questo suo disco pesca a piene mani anche da altri generi cari al cantante inglese. Forse “The Mandrake Project” non è il capolavoro che tutti si aspettavano, forse non scalerà le classifiche, forse non ci rimarrà impresso come alcuni dei suoi illustri predecessori, ma è sicuramente un album di Bruce Dickinson, nel bene e nel male, e ci aiuta a comprendere al meglio che cosa significhi trovarsi davanti ad un artista libero da ogni vincolo e limite. Un artista così non è più attanagliato dal bisogno di compiacere il pubblico ed è mosso da un solo obiettivo: esplorare la musica, in tutte le sue sfaccettature.

Tracklist

01. Afterglow of Ragnarok
02. Many Doors To Hell
03. Rain On The Graves
04. Resurrection Men
05. Fingers In The Wounds
06. Eternity Has Failed
07. Mistress Of Mercy
08. Face In The Mirror
09. Shadow Of The Gods
10. Sonata (Immortal Beloved)

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