NUOVE USCITERECENSIONI

Ghost – Impera

“When the paradise is lost go straight to…”

I Ghost sono tornati, ancora una volta, per scompaginare le certezze, sparigliare le carte in tavola e proporre un album che si allontana dai precedenti, senza però tradire la natura intrinseca della propria anima. Parlare di Ghost come band è ormai storia passata, si sa che dietro la maschera si cela il genio creativo di Tobias Forge, colui che ha preso (o secondo alcuni strappato) le redini del progetto per dar sfogo fondamentalmente alla propria vena artistica.

E “Impera”, il nuovo lavoro dei Ghost, ne è l’emblema, ancor più che il precedente “Prequelle”. Per farlo, il buon Papa Emeritus IV si è circondato di un team di compositori totalmente estranei alla scena metal, come Salem Al Fakir e Vincent Pontare, il cui zampino era presente sia nell’EP “Popestar” che in tutte le ultime produzioni della band e che hanno collaborato con artisti del calibro di Avicii, Katy Perry, Madonna e Lady Gaga. Non solo: oltre a un ormai consolidato gruppo di eccellenti turnisti, fa capolino, in maniera totalmente opposta rispetto agli aiuti compositivi, qualche guest star di spicco della scena metal come il chitarrista degli Opeth Fredrik Åkesson.

Il nuovo diabolico Papa, successore dell’eccentrico Cardinal Copia, ha quindi alle sue spalle una squadra variegata ma decisamente di altissima qualità, il connubio perfetto per dar vita alla visione musicale di cui lui stesso ha sempre apertamente discusso in numerose interviste: un rock pesante ma improntato sulla teatralità, sulla magnificenza e sull’eccentricità. È un lavoro che era già cominciato con “Prequelle” e che trova decisamente più compiutezza in “Impera”.

Il disco inizia con una breve strumentale, “Imperium”: delicati arpeggi di chitarra che salgono in crescendo per una marcia d’apertura che poi sfuma nella seconda traccia, “Kaiserion”, la cui intro spezza totalmente l’atmosfera creata dal brano precedente e apre davvero le danze dell’album. Si tratta di un rock energico, fatto di chitarre distorte in rincorsa, assoli trionfanti e un tono quasi da singolone AOR dal sapore retrò, sensazione che si conferma con il brusco cambio di registro del solo finale, che sembra uscito direttamente da un disco dei Journey. Un’impressione simile si conferma con il terzo pezzo, “Spillways”, che addirittura si apre con un’intro di tastiere alla Bon Jovi prima maniera, è ricchissimo di cori e controcanti e ricalca uno stile decisamente anni ’80, molto scenografico e sfaccettato. Si ritorna brevemente sul territorio più noto con i due singoli “Call Me Little Sunshine” e “Hunters Moon”; nel primo caso abbiamo un oscuro mid-tempo, scandito da lugubri rintocchi di campane, un brano in pieno stile Ghost che ricorda molto uno dei loro capolavori, l’album “Meliora”, mentre nel secondo, una canzone più ritmata, ammiccante e gotica, quasi una rassicurazione per i fan di vecchia data che lo spirito intrinseco della band sia rimasto intatto.

Questa sensazione viene prolungata dal pezzo successivo, “Watcher In The Sky”. Il sesto brano di “Impera” è il compimento della trasformazione della band in quell’entità che mescola metal e teatralità anni ’80 da rock band da stadio: c’è il riff portante, ampiamente sostenuto dalla sezione ritmica ma anche una struttura decisamente pop, con cori e tastiere, e soprattutto un bridge in crescendo che porta al finale della canzone che sembra fatto appositamente per infiammare una grane arena. Con un ulteriore twist, arriva “Dominion”, la seconda strumentale dell’album, in cui i fiati la fanno da padrone in un mix tra marcia funebre e arie di wagneriana memoria. Ed è solo il preludio di uno dei brani che farà maggiormente discutere: “Twenties”. Si tratta del terzo singolo tratto da “Impera” e ha già fatto storcere non pochi nasi: un tappeto ritmico che sembra preso dal raggaeton su cui si adagiano chitarre pesanti, filler di batteria in controtempo e la solita, diabolica voce del Papa che sogghigna come il malefico architetto che ha creato un qualcosa di davvero controverso. È un brano sopra le righe, “campy”, senza compromessi: lo si ama o lo si odia ma ha la particolare capacità di installarsi nel cervello dell’ascoltatore anche dopo molte ore che hanno solo le canzoni davvero riuscite.

C’è spazio anche per la ballatona da accendini in alto (visto che siamo in tema vintage): è “Darkness At The Heart Of My Love”, brano cadenzato e dolce, con un ritornello sapientemente studiato per una riuscita live da manuale. Anche nel finale del disco, con l’ultima tripletta di brani, non mancano le emozioni. Dopo la tiepida “Griftwood” e la strumentale di “Bite Of Passage”, che come da buona tradizione della band svedese, fa sia da riempitivo che da apertura al brano successivo, “Respite On The Spitalfields” completa alla perfezione il viaggio di “Impera” tra le ascese e le cadute degli imperi, appunto, che hanno costellato la storia. Ma soprattutto conclude il viaggio nel rinnovato stile dei Ghost: eccessivo, rutilante, patinato come un paginone anni ’80 e perfetto per la resa live come già confermano le date statunitensi degli ultimi giorni. I palchi a stelle e strisce mostrano una scenografia rinnovata, ancora più grandiosa, e una band sempre più numerosa tra coristi e strumentisti.

I Ghost hanno fatto l’ennesimo salto verso quel progetto di band immaginato dal mastermind Tobias Forge: benvenuti alla corte dei miracoli di Papa Emeritus IV.

Tracklist

01. Imperium
02. Kaisarion
03. Spillways
04. Call Me Little Sunshine
05. Hunter’s Moon
06. Watcher In The Sky
07. Dominion
08. Twenties
09. Darkness At The Heart Of My Love
10. Griftwood
11. Bite Of Passage
12. Respite On The Spitalfields

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