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IDLES – TANGK

Mamma, che fatica questa recensione. Chi conosce il sottoscritto sa quanto siano fondamentali gli IDLES nella sua miserabile – si fa per scherzare – vita. Saprà anche quanto importante sia stata la band di Bristol nell’assemblare la miccia per quel vigoroso processo di rinnovamento dell’alternative rock che ha trovato terreno fertile nell’ultimo quinquennio. E allora torniamo a qualche settimana fa: si setacciano i singoli, si spulciano le prime parole scritte sull’album e si lascia lì a fermentare l’hype. Si attende strenuamente la data d’uscita e.. puf!, un senso di straniamento fortissimo accompagna la mia prima immersione in “TANGK”, quinta fatica di Joe Talbot e compagnia.

E mentre il mondo celebra, osanna, eleva all’Olimpo, il sottoscritto è ancora lì, con le cuffiette conficcate nelle orecchie, con la faccia illuminata dallo schermo del pc e i pensieri che girovagano per dare una collocazione e un’inquadrata generale al prestigioso neonato.

La scalata degli IDLES è piuttosto semplice da riassumere: post-punk incazzato agli esordi che, come un blob, rotola e si contamina, assume necessità, esigenze comunicative, riflessioni sociali che i cinque bristoliani ficcano dentro senza remore. E così i ritmi iniziano pian piano a dilatarsi, la ruvidezza permane, ma cambia ciò che gli gira attorno, i tempi, le sperimentazioni, l’aspetto finale. Tutto fino a che “Crawler” non tira fuori la testa e sconquassa gli equilibri. Un album potentissimo, duro, crudo, che vomitava una vita di rancore, di dolore, di rimpianti. Ma nel frattempo accendeva una lucetta, quella di una speranza che Joe Talbot non ha mai perso, affrontando sé stesso in un processo di metamorfosi che convertiva il male fatto in passato in amore totale.

È quest’ultimo che “TANGK” vuole celebrare: un sentimento di gratitudine universale, una sorta di inchino verso tutto quello che ha letteralmente permesso che questi cinque anni di musica degli IDLES esistessero all’interno delle nostre vite.

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Photo Credits: Tom Ham

Fermi però, al di là di quanto la tematica possa far sembrare, “TANGK” è tutt’altro che un album di facile assimilazione, vuoi per la sua “lontananza” dagli esordi, vuoi per un’eterogeneità che ritorna in auge dopo gli esperimenti di “Crawler”. Ma a differenza di quest’ultimo, in cui spezzettamento sonoro, variazione repentina di umori e importanti switch stilistici erano l’incarnazione perfetta dell’inquieto turbamento che pervadeva l’interezza del platter, in “TANGK” questa disomogeneità è piuttosto impostata e voluta, ostacolando un po’ la fluidità dell’ascolto.

Cospicuo è l’utlizzo delle tastiere, che rubano il riflettore principale alla fredda elettronica che aleggiava sul predecessore: più respiro all’essenzialità dei sentimenti – i ghirigori pianistici di “IDEA 01” in apertura, il docile tappeto folk cucito da “A Gospel” – che segnano un po’ i checkpoint di un album che tocca vette contrastanti. Passiamo dalle sfuriate old school (“Gift Horse”, “Hall & Oates”) all’alt-rock più ragionato di “Roy” – Joe Talbot si sgola parecchio in questa sorta di rock ballad strozzata, pur non arrivando a toccare l’intensità e l’emotività raggiunte con “The Beachland Ballroom” – e di “Jungle”, in cui gli istinti animaleschi rimangono appena visibili, sotterrati da un’espressività che sfiora sintomi art-rock e urgenze liriche ben lavorate, strabordanti da tutto l’album.

Spuntano da tale groviglio sonoro i pezzi più particolari (ed esplicativi) del full-length: se “Dancer” assume, in tutto e per tutto, le forme del prototipo perfetto di singolo idlesiano – chitarroni gargantueschi di Bowen e Kiernan, ritornello di colloso pop-rock, crescendo rumoroso in outro – “POP POP POP” agisce su campi decisamente differenti, con una strumentale ridotta a qualche impulso elettronico, drum pattern secco e mantenuto e parole di gioia che fluttuano tra atmosfere vagamente radioheadiane che rimangono lì, un po’ sciape, un po’ incompiute.

È “Gratitude”, invece, che si becca la targa di pezzo più interessante, con quel suo graffio silenzioso, quei ruggiti che sbucano dalla penombra, quell’aria di inquietudine che si insinua tra gli sciabordii elettrici che vibrano e si avviluppano all’ugola roca del frontman. Sarebbe stata un’ottima traccia di chiusura, se non fosse per una scialbissima “Monolith” che gli ruba il posto a calare la saracinesca, non in maniera ottimale, su una tracklist che sarebbe “sopravvissuta” anche con soli dieci scalini.

Insomma, tutto questo parolame per dire che no, “TANGK” non è assolutamente un masterpiece, così come non è assolutamente un brutto lavoro. È, fondamentalmente, un disco “di respiro” dopo l’importante transizione crawleriana, una virata evolutiva che non ristagna nelle solite soluzioni, ma che guarda in avanti, con qualche highlight e con qualcosina di trascurabile, fotografia di una band in costante avanscoperta. Probabilmente il meno bello dell’ottima discografia degli IDLES, ma un album da non abbandonare frettolosamente al primo approccio.

Tracklist

01. IDEA 01
02. Gift Horse
03. POP POP POP
04. Roy
05. A Gospel
06. Dancer (feat. LCD Soundsystem)
07. Grace
08. Hall & Oates
09. Jungle
10. Gratitude
11. Monolith

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