A cura di Isadora Troiano e Simone Zangarelli
Sono passati quasi tre anni da quel post su Instagram, testo bianco e sfondo nero, in cui si annunciava l’uscita del chitarrista Josh Klingoffer e il ritorno trionfante di John Frusciante, l’uomo che esce dal gruppo per antonomasia. In quel momento, probabilmente moltissimi fan hanno pensato a un pesce d’aprile fuori stagione. Era il dicembre 2019, un tempo ormai anni luce da quello in cui viviamo, quando tutto era ancora normale e le mascherine erano roba per Halloween o Carnevale, e in vista del tour mondiale 2020, poi ovviamente rimandato, sembrava davvero un sogno ad occhi aperti. Ebbene, da quel singolo momento, complice anche l’immobilismo della pandemia, ogni fan dei Red Hot Chili Peppers ha iniziato a sperare in nuova musica, ad attendere pazientemente il momento in cui, dopo 16 lunghi anni, avrebbe risentito delle note della chitarra di Frusciante unite al basso roboante di Mr Michael Balzary al secolo Flea, alla batteria possente di Chad Smith e alla voce inconfondibile di Anthony Kiedis. Se a questo si aggiunge un ritorno alla produzione di Rick Rubin dopo più di un decennio l’attesa non può che crescere. E quel momento, fortemente desiderato, forse anche un po’ temuto è arrivato. C’è emozione palpabile nel premere play e far partire “Unlimited Love”, oltre che immense aspettative: abbiamo tra le mani 17 tracce, forse troppe, forse no, oltre un’ora di musica, titoli che da settimane rimbalzano su social e notizie e tre pezzi rilasciati ufficialmente che hanno già diviso il pubblico dei californiani e non solo.
Black Summer: Una cosa è certa quando si ascolta un album dei RHCP, ci sarà sempre posto per la hit. Uno dei fattori cruciali del successo della band è proprio la loro capacità di creare costantemente canzoni che rimangano nel tempo, che sfidino l’ascolto compulsivo e si cristallizzino in brani di culto. “Black Summer” è la conferma di tutto ciò. Non a caso è stato eletto come primo singolo che rilanciasse una nuova alchimia della band, più matura per certi punti di vista ma anche più carica di aspettative. Black Summer è un brano che vale un disco perché è il riassunto di tutto ciò che i Red Hot hanno sempre rappresentato: la stravaganza e il mistero delle liriche, l’assolo di chitarra che tutti i fan aspettavano da 16 anni e l’inconfondibile sound West Coast che è diventato il marchio di fabbrica per Kiedis e i suoi.
Here Ever After: è qui per farci sentire che la band è interamente viva. Il basso di Flea sembra di percepirlo nelle ossa, poi entra la batteria di Chad Smith con quella sua galoppata up-tempo e infine si fanno largo le chitarre e il tanto atteso rap-funk che solo Anthony Kiedis può cantare. La canzone racchiude la naturale tendenza al rap della band e più in avanti nella traccia si sentono le eco di Californication in lontananza. Il ritornello ha la potenza giusta ma rischia di perdere mordente negli ascolti prolungati. “She’s the kinda of girl who wanna make you want to go faster now”, sentimento che la canzone trasmette fin dal primo momento con il suo piglio affannato e dissoluto.
Aquatic Mouth Dance: Qualcuno ha detto funk? Se l’attitudine fusion si è andata sempre di più avvicinandosi verso ritmi sincopati con “I’m With You” e “The Gateaway”, i Red Hot vogliono stavolta spingere sull’acceleratore. Il brano rende omaggio ad alcune delle prime influenze del gruppo su una linea di basso imperante mentre i fiati aggiungono un tocco di jazz ad un arrangiamento sicuramente sorprendente. La voce, a tratti crooning, lascia sfilare una carovana di strumenti che sembrano quasi jammare in un’improvvisazione alla Herbie Hancock.
Not The One: Una strizzata d’occhio a “Space Oddity” non guasta mai. Soprattutto se il momento più rilassante dell’album arriva dopo tre importanti tracce in successione diretta. La chitarra di Frusciante è come una carezza del vento: suoni dilatati e ovattati che richiamano il prog e in particolare un’eterea “Matte Kudasai”. Seppure gli spazi per l’esplorazione in questo caso non manchino, i Red Hot concedono giusto il tempo all’ascoltatore di riposare le orecchie per una nuova vertigine sonora.
Poster Child: è qui che la nostalgia è richiamata con maggiore forza. Se i tempi di Blood Sugar Sex Magik sembravano lontani, forse lo sembrano ancora di più con questo pezzo che ha decisamente degli elementi interessanti (rap di qualità, riff gustosi e suoni modulari di natura imprecisata) ma tutta la magia svanisce in un ritornello quasi fastidioso che non riesce a catturare veramente l’attenzione. Il brano suona come un cliché ascoltato nel complesso, la traccia che i Red Hot negli anni 90 avrebbero scartato da qualsiasi album.
The Great Apes: Leggeri rimandi ad “Under The Bridge” nel riff iniziale non sono abbastanza per rimanere entusiasti. Il brano è una godibile mescolanza di elementi hard rock e ballad. L’assolo di Frusciante è molto tecnico ma non tra i migliori del disco. Nel complesso il brano sembra mancare di anima, composto da idee buone ma con poca sostanza, complice un basso troppo ridondante e una linea melodica sommessa. “Superstar don’t do the dishes” rimarrà una delle frasi più belle dell’intero disco.
It’s Only Natural: si passa al terzinato con un Chad Smith finalmente in primo piano dopo aver faticato ad emergere per tutto il disco. Tra le canzoni meglio riuscite dell’album, si caratterizza anche per la ponderatezza nei suoni, tra un bending e un charleston appena accennato il brano stacca benissimo tra strofa e ritornello. La voce di Kiedis è rilassata come in pochi altri momenti, gli assoli di Frusciante riprendono perfettamente il tema. In generale una canzone coesa ed interessante come (purtroppo) poche altre del lotto.
She’s A Lover: un brano dalle tinte calde candidato ad essere la prossima hit estiva. Il sound californiano è chiaro come la luce della luna che illumina la notte, leggero e rigenerante, si porta dietro una patina di frivolezza tutto sommato piacevole. Il lavoro di Frusciante sullo sfondo è ancora una volta mastodontico. L’allusione stavolta è a Prince e al suo funky alla moda, fluido e ballabile. Il groove è lì, l’allegria anche, manca solo la festa in cui suonarla (per ora).
These Are The Ways: I Red Hot Chili Peppers incontrano I Green Day ma il risultato suona molto The Weezer. Non si riesce da subito a capire come risolveranno i Quattro ma dal primo ritornello risulta chiaro che ancora una volta la ricerca dell’originalità sembra essere la linea guida. Isolando i numerosi cambi di stile si potrebbe trovare materiale per fare 2/3 canzoni, ma la scelta di accorpare in un’unica soluzione tante idee diverse risulta vincente in questo caso in termini creativi. Il rovescio della medaglia sta nel non riuscire davvero a stabilire un contatto emotivo con il pezzo. Almeno non dall’inizio.
Whatchu Thinkin’: il ritorno a un funk scanzonato ed unito al rap morbido e seducente di Kiedis è uno dei punti chiave di “Unlimited Love” e questo pezzo ne è l’ennesima prova. Strofe in cui basso e voce vanno praticamente a braccetto e la fanno da padrone, mentre la chitarra interviene attivamente solo nel ritornello e nell’assolo geometrico ed essenziale, in pieno stile “jam dal vivo di John Frusciante”. Il ritmo è ben scandito dalla fidatissima batteria di Chad Smith e da più gusto al tutto ma il pezzo, in definitiva, non decolla del tutto.
Bastards Of Light: forse una delle canzoni più complesse e sfaccettate dell’album, l’intro elettronico non fa decisamente attendere il ritornello più melodico, acustico e catchy, supportato dai cori del solito Frusciante in grande spolvero. Tutto regolare fino al breakdown in cui il registro cambia completamente per una chitarra più furiosa e graffiante, una voce totalmente effettata e una base ritmica più aggressiva, con un assolo che sfiora il robot rock. Nel finale si ritorna al ritornello già ascoltato ma ormai l’ascolto è stato spiazzato da questa incursione, che fa sicuramente venir voglia di ascoltare ancora questo brano.
White Braids & Pillow Chair: un pezzo decisamente poco riuscito, anche qui, come in molti altri si parte da un’idea per aggiungerne un’altra completamente diversa ma il risultato lascia perplessi, le due parti differenti non sono ben amalgamate e l’esplorazione di sonorità al limite del country non fa breccia. Sia lato strumentale che vocale, questa canzone risulta piuttosto scialba e non riesce ad emergere nell’ascolto generale del disco.
One Way Traffic: un brano ritmato con un groove energetico e un ritornello accattivante che forse sarebbe risaltato maggiormente se posizionato più in apertura dell’album. Il solito connubio Flea/Chad Smith riempie piacevolmente il suono, mentre la chitarra di Frusciante marcia sicura per poi abbandonarsi a un bridge ancora una volta diverso dal mood generale del pezzo. Di sicuro è un brano con un ottimo potenziale dal vivo e che potrebbe diventare un ospite fisso nelle scalette della band.
Veronica: una delicata ballad che ricorda a tratti sonorità alla “By The Way”, grazie ai cori di Frusciante che si innestano su un cantato lineare e dolce. Spicca molto la presenza del basso che accompagna magistralmente la melodia, ricamandoci sopra come solo Flea sa fare, nel complesso un pezzo piacevole, che evoca le calde atmosfere di un tardo e assolato pomeriggio californiano, innalzando i toni nel finale con un assolo malinconico con qualche tocco psichedelico.
Let ‘em cry: alla quindicesima traccia, Flea non si è ancora stancato di arpeggiare sul suo basso disegnando ritmi al limite del reggae, è praticamente lui il protagonista di questo brano, aggiungendoci anche la sua solita tromba per un tocco più raffinato al tutto, c’è spazio per Frusciante solo nell’acido assolo centrale che impreziosisce ulteriormente una canzone che però non convince fino in fondo nella riuscita finale.
The Heavy Wing: uno dei pezzi più belli del disco, immeritatamente relegato alla fine ma che fa valere assolutamente la pena di ascoltare fin qui. La voce riverberata di Kiedis delinea magistralmente la melodia principale, supportata in maniera molto efficace da Frusciante in un crescendo che esplode in un ritornello cantato proprio dal chitarrista. La collaborazione tra i due musicisti e la chimica fortissima del pezzo, unita a un riff di chitarra finalmente mordente rende questo brano una delle perle della proposta.
Tangelo: i Red Hot Chili Peppers aprono l’ultimo brano di Unlimited Love con un malinconico intro zeppeliniano, finalmente John Frusciante imbraccia la chitarra acustica, seguito a ruota da Flea, mentre Chad Smith si nasconde dietro le percussioni con pochi e delicati accenti, per un brano che può ricordare una Road Trippin’ d’altri tempi, quanto meno per posizione all’interno della tracklist. Le incursioni dell’organo e i delicati arpeggi fanno di Tangelo una canzone intima, poetica, una chiusura degna della proposta complessiva.
Tirando le somme Unlimited Love è un album di tutto rispetto ma anche con dei difetti difficili da ignorare: le canzoni spesso e volentieri iniziano con un’idea forte per poi perdersi in altre idee, contrastanti ma non sempre funzionanti. Girano intorno ma non sembrano sempre arrivare al punto, rivelare l’essenza profonda dietro un concetto, diluite dalla volontà di creare qualcosa di mai sentito a tutti i costi. Difficilmente riescono a conquistare al primo ascolto. Sembra che i Quattro della California siano più impegnati a sembrare a tutti i costi i Red Hot Chili Peppers anziché suonare realmente come farebbero i Red Hot. Complice la pressione in vista dell’annunciata e attesissima reunion, la chimica c’è ma non sembra davvero portare da qualche parte. Che quella di dose di “Amore senza limiti” non sia abbastanza?