Articolo a cura di Valentina Codini e Alessandro Montaldi

Ma quant’è strano e interessante al tempo stesso condividere i ricordi della stessa cosa? Discutere, capire, snocciolare le cose vissute e condivise, ammirando i diversi lati e i minuziosi dettagli, tra sorrisi, lacrime, urla e sospiri. Difficile da credere? Facciamo un tentativo: cosa ci ricordiamo della musica del 1994? Qui, in Italia, sicuramente qualcuno ricorderà un anno un po’ catartico; qualcuno un po’ triste, perché “Malelingue” di Ivan Graziani sarebbe stato il suo ultimo disco; qualcuno un po’ spensierato, perché Jovanotti pensava positivo.

E negli Stati Uniti? Oltre al canto del cigno della scena grunge, qualcuno citerebbe l’arrivo in classifica dell’industrial, i primi semi del nu metal, Jeff Buckley, i Weezer… e la tempesta mainstream del punk. Perché se oggi abbiamo il piacere di considerare il punk – in qualsivoglia forma – qualcosa di socialmente accettato, anzi quasi come qualcosa di figo, è tutto merito di quanto accaduto in quegli anni. Oggi magari diciamo che odiamo il sistema, ci vestiamo di abiti comprati in un ferramenta, sfoggiamo capigliature che non hanno nulla da invidiare alle vecchie fan art di Dragon Ball… ma poi in realtà non sappiamo perché lo facciamo e finiamo per essere come il Joker di Heath Ledger: “Sono un cane che insegue le macchine, non saprei che farmene se le prendessi!

Ordunque, se oggi esiste questa inerzia nella scena, per cui i punk sono così e fanno così, è perché esattamente 30 anni fa qualcuno lottava davvero contro dei disagi e noi ci troviamo qui per rendere onore a 5 band che quell’anno hanno scritto la storia del genere e dato vita a quello che poi sarebbe stato definito pop punk.

I VENDUTI

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Foto: Ken Schels

Anni prima di diventare la band pop punk multiplatino degli anni 2000 e di riempire stadi in tutto il mondo, i Green Day erano un umilissimo trio indipendente di Oakland, California. Per quanto sconosciuto, il gruppo presentava il sound con cui avrebbe infiammato il mondo già nei primi lavori, (“39/Smooth” e “Kerplunk”) e l’arrivo di un fenomeno come Tré Cool dà una marcia in più al progetto: ma non basta per farcela. Cool, insieme a Billie Joe Armstrong e Mike Dirnt, dovrà accettare il peso di una delle sigle più difficili all’interno della musica punk: venduti. La firma dei tre giovanissimi per la Reprise Records gli costerà l’esilio dal leggendario 924 Gilman Street e l’odio dei true punks: ma per ogni fan della prima ora perso, decine di copie di “Dookie” vengono vendute e consumate da una nuova schiera di ammiratori.

La solitudine che sfocia in erotismo di “Longview”, i disturbi clinici e sociali di “Basket Case”, la libertà di “Welcome to Paradise”, i problemi di cuore di “She”. Il primo disco con Rob Cavallo, il primo Grammy e oltre 20 milioni di copie nel mondo – ancora oggi il disco punk più venduto in assoluto. Un disco che ha influenzato tutti gli artisti successivi, punk e non, da quelli presenti in questo articolo fino a Lady Gaga. Una carriera che, tra alti e bassi (come tutti del resto), prosegue ancora oggi, con la stessa formazione. Venduti perciò? Secondo il sommo Fat Mike: “I Green Day non si sono venduti. Hanno reso popolare quello che già facevano”. Secondo i true sicuramente sì, ma alla fine chi ha vinto?

GLI AMERICANACCI

The Offspring

Chitarre potenti, riff pesanti e lenti tempi hardcore, insieme a un timbro vocale alto, un mix tra urlato e cantato. Stiamo, ovviamente, parlando de’ The Offspring. Esattamente trent’anni fa, Dexter Holland, Noodles, Greg K. e Ron Welty pubblicano il loro terzo album, “Smash”, ancora una volta assistiti da Thom Wilson – che in quegli anni faceva scintille nella scena punk – e dalla Epitaph di Brett Gurewitz. Il lavoro precedente, “Ignition” (1992), era sì andato bene, ma nessuno si aspetta quanto sarebbe accaduto dopo.

E invece tutti si devono ricredere: ancora oggi, nessuna etichetta indipendente è riuscita a sfornare un prodotto che superi i numeri fatti da questo disco. Oltre 11 milioni di copie, in classifica per ben due anni, giungendo fino alla quarta posizione negli Stati Uniti. Come possiamo dimenticare i singoli di quell’album, che ancora oggi ci fanno cantare e saltare ai loro concerti: “Come Out and Play (Keep ‘Em Separated)”, “Self Esteem”, “Gotta Get Away”. “Smash” non è solo il disco della fama, bensì ciò che diede il La ai californiani, che domineranno la scena almeno fino all’arrivo di un certo trio dalla California. Sebbene negli ultimi tempi siano cambiati molto, sia a livello di formazione che musicale, The Offspring rimangono forse il gruppo punk rock/pop punk simbolo di quella scena californiana negli anni 90.

I RIBELLI

Rancid
Foto: Martyn Goodacre

Nell’anno consacrato per la nascita del pop punk, ecco che arrivano anche loro, i Rancid, a dover dare la loro opinione – e mi verrebbe da dire anche per fortuna – con il loro secondo album, “Let’s Go”. Usciti solo l’anno precedente col disco d’esordio, omonimo, il gruppo di Berkeley torna subito in studio, ma stavolta con un paio di armi in più: innanzitutto la produzione della Epitaph e di Brett Gurewitz in persona, che firmerà quasi tutti i lavori successivi della band; poi, l’aggiunta di Lars Frederiksen alla formazione. Non solo una chitarra e una voce in più, ma forse è proprio l’attitudine hardcore che mancava al trio, che mischiata alle influenze etniche degli ex Operation Ivy diventa la chiave per il successo. “Let’s Go” è un disco pieno di energia, la band è forse la più cazzuta tra quelle della loro scena, nonostante il loro punk appunto non sia puro ma contaminato, soprattutto dalla musica ska.

I Rancid gridano ribellione e arrivano dritti al punto con brani come “Salvation”, con il suo videoclip in cui Tim Armstrong e Frederiksen scappano dai federali, o “Nihilism”, con la sua disinvolta cattiveria punk, oppure ancora “Radio”, un omaggio ai grandi The Clash che porta la firma di un altro Armstrong. In un universo diverso dal nostro, probabilmente Billie Joe è rimasto nella formazione del suo omonimo; noi per fortuna viviamo in quello dove possiamo godere sia dei Rancid che dei Green Day. I fan diranno che “Let’s Go” è l’album migliore della band: forse un parere soggettivo, poiché i Rancid cambieranno diverse volte stile musicale. Ma come non ricordare il ritornello di “Harry Bridges” che ti lascia con un groppo in gola? “Over and over again the doors are loc­ked/And the win­do­ws are bro­ken”.

I FEDELI

NOFX

I NOFX suonano un punk contaminato dalla musica etnica, ma lo fanno anche i Rancid; hanno cantanti parecchio stonati, ma anche Dexter Holland è celebre per le sue performance poco lodevoli; hanno un lato fortemente demenziale, ma pure i Green Day – soprattutto quelli degli inizi; più di tutto questo forse, la loro musica è molto più vicina al melodic hardcore che al pop punk, ma ovviamente lo stesso discorso vale anche per i Bad Religion – che un po’ il melodic hardcore l’hanno plasmato. Dunque, cosa li distingue in particolare dai loro pari? L’impeccabile etica. Perché a differenza di tutti gli altri, questo quartetto è rimasto fedele al codice hardcore per eccellenza: DIY, do it yourself, restare indipendenti. E se all’inizio anche loro si affidano alle mani di qualcun altro – ancora una volta l’indipendente Epitaph –, negli anni 2000 passeranno alla propria etichetta.

Diciamo tutto ciò perché nel 1994, dopo il successo dello scanzonato “Punk in Drublic”, non tutti sarebbero stati capaci di rifiutare le offerte delle major e rischiare la strada più ardua. Eppure, così facendo, ora Fat Mike, El Hefe, Eric Melvin ed Erik Sandin sono delle autentiche icone del genere. Un disco che racchiude perfettamente l’arte del gruppo: quale altro gruppo punk farebbe una critica politica scimmiottando il rock anni ’80 (la loro cover di “Perfect Government”), una serenata molto esplicita (“My Heart Is Yearning”), un urlo hardcore di libertà pornografica cantato con Kim Shattuck dei Muffs (“Lori Meyers”) e perfino una presa in giro delle allora bizzarre Birkenstock (“Jeff Wears Birkenstocks”)? 40 minuti di ascolto che ancora dopo 30 anni fanno sorridere e pogare. Che dire, oggi, ai cari NOFX? Semplicemente, ci mancherete.

I VETERANI

Bad Religion

Se ci trovassimo di fronte alla mappa di un’indagine della polizia, troveremmo ora dove i fili finalmente si riuniscono: “Stranger Than Fiction” dei Bad Religion. Dopo aver mostrato in anticipo al mondo chi erano i Green Day al di fuori di Berkeley, il quintetto losangelino, ormai all’attivo da quasi 15 anni, aggiunge un tassello ad una serie di lavori molto fortunati con il suo ottavo disco in studio, prodotto da Andy Wallace, pubblicato però non per la Epitaph di Gurewitz, bensì per la Atlantic Records. Sarà proprio questo fattore, unito all’estenuante lavoro piombatogli addosso dai neo-famosi The Offspring, a causare la fuga del chitarrista dalla formazione (tornerà nel nuovo decennio). La firma per la major è una mossa, come abbiamo già detto, molto rischiosa nel mondo punk, e perfino i NOFX la citeranno nel brano “I Am a Huge Fan of Bad Religion”.

Mother, father, look at your little monster/I’m a hero, I’m a zero, I’m the butt of the worst joke in history”. L’album parte subito senza troppi compromessi, con le tematiche sociali tipiche di Greg Graffin e di Gurewitz. Successi come “Infected” e la rinata “21st Century (Digital Boy)”, ma anche brani meno noti come “Leave Mine to Me” e “The Handshake”, per non citare le grandi ospitate di Tim Armstrong (“Television”) e di Jim Lindberg dei Pennywise (“Marked”): tutto ciò rende “Stranger Than Fiction” uno dei dischi più preziosi della discografia dei Bad Religion, che comunque, dopo non pochi cambi di lineup, non sembrano volersi fermare e si avvicinano al 50° anniversario. Ancora una volta, forse, alla faccia di chi gli diede dei venduti.

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