La fine del 2023 sta per arrivare e come ogni anno è tempo di classifiche e resoconti. Ecco quindi il nostro viaggio tra le 20 migliori pubblicazioni dell’anno, come sempre in ordine di uscita e in perfetto equilibrio tra generi diversi, esordi di livello e grandi conferme di veterani della scena.

Beyond The Black – Beyond The Black
(13 gennaio, Nuclear Blast)

Tre anni dopo “Horizons”, riuscitissimo esperimento dai tratti pop, i Beyond The Black tornano in scena sguainando un prodotto che riporta in auge il metallo, senza però cestinare la modernità del penultimo lavoro. “Beyond The Black” rappresenta un mix perfetto di tutto ciò che il gruppo di Mannheim ha realizzato in circa dieci anni. Ritornano le orchestrazioni, le sonorità folk e il cantato in growl che hanno caratterizzato la band, e allo stesso tempo si ripresenta l’efficace semplicità dei brani di “Horizons”. Non ci poteva essere così nome più azzeccato per questo disco: cosa c’è Oltre il Nero? Chi sono i Beyond The Black? Questo album ne è la risposta. Non hanno inventato nulla, sanno solo fare il loro mestiere alla grande, confermandosi tra le top band Symphonic metal del momento e non è una casualità se in madrepatria si son presi la scena in festival come il Wacken Open Air e il Summer Breeze.

The Murder Capital – Gigi’s Recovery
(20 gennaio, Human Season Records)

Un album mai banale, differente in ogni suo singolo tassello, che perde forse qualcosina a livello di atmosfera, ma che riguadagna in vigore emotivo, trascinandosi dietro un fardello interiore che rapisce l’anima. Un disco che colpisce e che, probabilmente, salva: “Gigi’s Recovery” è una confessione senza freni inibitori, graffia nonostante la sua apparente mansuetudine, è la trasposizione musicale di un dialogo allo specchio, faccia a faccia con noi stessi, per provare a comprenderci, a trovare una dimensione precisa su cui vivere serenamente, o anche solo per accomodarci, per qualche secondo, e chiudere gli occhi, sentendoci finalmente liberi da tutto.

Katatonia – Sky Void Of Stars
(20 gennaio, Napalm Records)

I Katatonia pubblicano il loro dodicesimo album, che prosegue sulle coordinate gothic, progressive e post-rock già tracciate dai suoi illustri predecessori. “Sky Void of Stars”, più che un album ripartito in tracce, ha quasi le sembianze di un’enorme suite, composta da momenti diversi ma, al tempo stesso, uniti dalle medesime tematiche e, soprattutto, da una pasta sonora tanto ricorrente quanto ammaliante. I Katatonia, inutile sottolinearlo, sono dei maestri indiscussi del loro genere e la loro proposta musicale, ancora una volta, è chiaramente riconoscibile in pochissime note.

Paramore – This Is Why
(10 febbraio, Atlantic Records)

A distanza di oltre 5 anni, i pilastri del pop punk tornano con il loro album più audace di sempre “This Is Why”, sesto capitolo di una discografia iniziata quasi due decenni fa. Un disco maturo sotto tutti i punti di vista, che mette al centro il talento da fuoriclasse di Hayley Williams come cantautrice e lascia ampi spazi di manovra al batterista Zac Farro – rientrato nella band dopo un abbandono lungo quasi 10 anni – e al chitarrista Taylor York, per sperimentare con i generi e le sonorità.

DepecheMode

Depeche Mode – Memento Mori
(24 marzo, Sony Music)

“Memento Mori” costituisce un capitolo a sé, un diamante nero incastonato nella ultraquarantennale e onorata carriera della band che ha consacrato la musica elettronica a livello mondiale, trascendendo generi e generazioni. Dave Gahan soprattutto non ha fatto mistero di aver pensato di appendere gli strumenti al chiodo e di ritirarsi a vita privata vivendo il resto dei suoi anni in tranquillità, ma le motivazioni riguardo il continuare a fare musica in maniera onesta e trasparente – tratto che ha sempre contraddistinto il gruppo – finché ne vale la pena sono prevalse; e di questo non possiamo che rallegrarci.

Boygenius – The Record
(31 marzo, Interscope)

Cosa succede quando tre punte di diamante del nuovo cantautorato indie rock americano uniscono le forze? Sicuramente non può che uscirne qualcosa di buono. Dopo aver catturato l’attenzione della critica con un EP pubblicato nel 2018, Julian Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus confezionano un piccolo gioiello in cui gli stili delle sue autrici sono incastonati con una sinergia confortante e riflessiva: dell’ottimo songwriting, sincero e vulnerabile, immerso in una cornice fresca ed eterea che non può non piacere ai fan dei Wolf Alice (e nella playlist spicca persino un omaggio a Leonard Cohen). “the record” è già candidato a molteplici Grammy Awards – e per una volta, non possiamo che ritenerlo un meritato riconoscimento.

Daniela Pes – Spira
(14 aprile, Tanca Records)

Non è un caso che “Spira”, pur essendo un album di esordio di un’artista fino a pochi mesi fa sconosciuta, stia raccogliendo una quantità tale di consensi da parte di un pubblico così eterogeneo. Perché certe volte non abbiamo bisogno di capire. Ringraziamo innanzitutto il coraggio di una ragazza dalle idee a suo modo visionarie e le sue capacità nel dare una forma intangibile a queste idee. Tuffiamoci, poi, con gli occhi lucidi dentro “Spira”, dentro questo mondo a suo modo perfetto, dove antico e moderno danzano insieme, dando vita a concetti e sensazioni ugualmente forti ed estranee.

Dødheimsgard – Black Medium Current
(14 aprile, Peaceville Records)

I Dødheimsgard non sono semplicemente una band, bensì un dado dalle innumerevoli facce capace di sorprendere a ogni lungo giro di boa discografico. Gli scandinavi tornano a deliziare i palati fini dell’estremismo sperimentale attraverso i sessantanove minuti di “Black Medium Current”, un viaggio filosofico nel mare magnum delle antinomie che tormentano la mente umana e le loro varie ripercussioni sull’interiorità dell’individuo. Un concept sui generis, trasversale e profondo, influenzato dal determinismo anglosassone e dalla metafisica indiana, che, malgrado i molti rivoli narrativi, si dipana in maniera meno tortuosa rispetto alle spigolosità del precedente “A Umbra Omega”

Enter Shikari – A Kiss For The Whole World
(21 aprile, SO Recordings
)

“Please, set me on fire”. Sono queste le prime parole che gli Enter Shikari ci rivolgono tre anni e una crisi creativa dopo la pubblicazione del precedente “Nothing is True & Everything is Possible”.
Drenato dalla pandemia e dall’impossibilità di suonare dal vivo per troppo tempo, Rou Reynolds, mente e voce della band inglese, nel primo singolo tratto da “A Kiss For The Whole World” sembra proprio invocare disperato forze superiori che lo reinvestano della sua ispirazione e della sua incontenibile ed entusiasta iperattività artistica. È stato senza alcun dubbio ascoltato.

SleepToken

Sleep Token – Take Me Back To Eden
(19 maggio, Spinefarm Records)

Non sono molte le band capaci di far parlare così tanto di sé, facendo schizzare l’hype alle stelle e incuriosendo anche chi non ne è mai stato fan. E sono ancora meno quelle che, come gli Sleep Token, riescono effettivamente a soddisfare le aspettative. Non bisogna fermarsi alla prima impressione ascoltando “Take Me Back To Eden”: per apprezzarlo, va ascoltato più volte, immergendosi totalmente nell’atmosfera misteriosa e onirica che solo gli Sleep Token riescono a creare. Non è un disco metal, non è un disco pop: è una commistione di generi, qualcosa di fresco di cui avevamo bisogno.

Foo Fighters – But Here We Are
(2 giugno, Sony Music)

Tornano i Foo Fighters con un lavoro discografico, l’undicesimo della loro brillante carriera, ben lontano dal deludere i suoi fan: “But Here We Are” è un vero e proprio percorso introspettivo che, traccia dopo traccia, scava sempre più a fondo nel dolore per la scomparsa di Taylor Hawkins. Un lavoro carico di emozioni, essenziale come la copertina che lo veste, tra piccole sperimentazioni e nuovi suoni, ritorni a casa, silenzi, melodie penetranti, cambi dinamici repentini e travolgenti.

Queens Of The Stone Age – In Times New Roman…
(16 giugno, Matador Records)

Il ritorno di Josh Homme e soci viene presentato come chiusura di una trilogia, iniziata con “… Like Clockwork” e proseguita con “Villains”. A differenza del predecessore, l’ottavo album della band è un lavoro autoprodotto e molto personale, sonoramente meno accessibile e più duro. “In Times New Roman…” conclude l’ideologico ciclo dei Queens of the Stone Age in bellezza: un disco dark, ma che avvolge nelle sue cupe sonorità, che insegna a trovare il bello anche nella sofferenza e che da essa si può anche rinascere.

Nothing But Thieves – Dead Club City
(30 giugno, Sony Music)

I ragazzi dell’Essex non sono affatto nuovi ai temi sociali – basta citare il titolo della loro penultima opera, “Moral Panic” (2020) – ma questa volta sembrano davvero essersi superati. Il quarto album in studio della band ci presenta un luogo, anzi, uno scenario indefinito nel quale si muovono diverse vicende e personaggi, toccando argomenti quali l’industria musicale, internet ma anche temi più positivi quali il desiderio di libertà, fisica quanto emotiva. Anche dal punto di vista musicale, i Nothing But Thieves non smettono di stupire, smussando sempre più lati e continuando a mettersi in gioco, prendendosi anche dei rischi.

blur

Blur – The Ballad Of Darren
(21 luglio, Parlophone Records)

La reunion dei Blur non è un tentativo di autocelebrazione, ma è un lucido percorso di riallineamento – cronologico e mentale – con lancette che hanno girato parecchio, un ripercorrere il passato per mettere le spunte sui traguardi e sulle inevitabili perdite, un resoconto da timidi sorrisi e docili lacrime sulle guance. In “The Ballad Of Darren” non parlano più le star del britpop, ma riprendono voce cinquantenni con nuove consapevolezze acquisite ed altre lucidamente perdute, e questo processo di creazione e disgregazione, prima celato dall’arrembaggio del successo, è ora il fulcro stesso di una band che nemmeno pensa di aggrapparsi ai fasti del passato, ma che vuole unicamente godere della musica con la saggezza di chi ha ormai compreso la fugacità della vita e quanto sia conseguentemente fondamentale il solo dipingere il proprio stato d’animo nella fermezza di un istante.

Slowdive – everything is alive
(1 settembre, Dead Oceans)

“everything is alive” sembra una dichiarazione da sopravvissuti e, invece, ci fa chiarezza su un modo di vedere il mondo brulicante, vivo, pulsante, al ritmo dei synth che piovono tamburellanti su un secondo troncone di carriera degli Slowdive meno ronzante di chitarre, più affine ai già ben noti scorci dream pop. Ma in ogni caso, dal lontano 1991, è uno splendido viaggio continuo e noi, umani che si emozionano facilmente dinanzi alla meraviglia delle note e che preservano con cura la fondamentale correlazione tra i sentimenti e la musica, ci ritroviamo, per l’ennesima volta, su coordinate che nessuna mappa astrale potrebbe identificare, a sorridere, a piangere, a volteggiare.

Mitski – The Land Is Inhospitable and So Are We
(15 settembre, Dead Oceans)

Sembrava dovesse abbandonare la musica Mitsuki Laycock, conosciuta ai più come Mitski, e invece con “The Land Is Inhospitable and So Are We” segna un clamoroso dietrofront che diventa uno dei dischi più suggestivi del 2023. Evoca scene di cruda e spettrale bellezza, supportate da ampi arrangiamenti orchestrali scritti da Drew Erickson, l’uomo dietro la grandiosità della vecchia Hollywood di Chloë and the Next 20st Century di Father John Misty e la fioritura cosmica di And in the Darkness, Hearts Aglow di Weyes Blood. È finito il claustrofobico synth-pop che ha regalato a Mitski il suo primo successo su Billboard, il suono teso della grande città; ora le luci accecanti del palco sembrano apparire solo come un ricordo flebile. Il risultato stavolta è un disco più caldo, più silenzioso e dal suono più organico che mette in primo piano il suo evocativo modo di scrivere, paesaggi folk di un’America da narrativa di Joe Lansdale. Per la prima volta da molto tempo, sembra che Mitski sia tornata a respirare.

Steven Wilson – The Harmony Codex
(29 settembre, Virgin Records)

Dopo il ritorno dei Porcupine Tree, Steven Wilson mette la firma su un album che, nella sua complessità, riesce ad essere fresco e diverso da qualsiasi altra pubblicazione dell’artista inglese, pur avendo al suo interno tutti gli elementi sonori che sono stati studiati e proposti in 30 anni. Con “The Harmony Codex”, il musicista inglese mette un punto fermo nella propria carriera. Se il suo scopo, come lui stesso ha dichiarato, era raggiungere il culmine della creazione del suo universo musicale, poco da dire: il risultato è pienamente raggiunto.

blink182

Blink-182 – One More Time…
(20 ottobre, Columbia Records)

Ormai rassegnati a dover (soprav)vivere senza quell’amata line up e immersi in un insipido pop punk revival, un anno fa arriva la buona notizia: il figliol prodigo ha fatto ritorno, i blink-182 sono di nuovo Barker-Hoppus-DeLonge. Barker è Zeus, che scaglia fulmini e saette sulla propria batteria. Hoppus è Poseidone, che con il suo basso e la sua quieta voce smuove le maree. E DeLonge è Ade, che scatena gli Inferi grazie alla sua chitarra e alla voce sgraziata. Le divinità supreme del pop punk si sono riunite per dimostrare che sono ancora in grado di governare il mondo, ma solo insieme.

Cirith Ungol – Dark Parade
(20 ottobre, Metal Blade Records)

Gli statunitensi non hanno mai seguito un progetto musicale standard lasciandosi guidare da un’interpretazione del metal originale e immediatamente riconoscibile, figlia degli anni ’70 e partecipe della NWOBHM e del camaleontismo degli ’80, con la voce stridula di un ancora efficacissimo Tim Baker a fungere da rilevante elemento distintivo. Con questo “Dark Parade” i Cirith Ungol centrano appieno l’obiettivo di costruire un LP opimo di un pessimismo privo del benché minimo spiraglio di luce, lucida rifrazione di un mondo in declino, davvero arduo da rimettere in piedi. Qualora accadesse, non poteva, forse, esserci congedo migliore dalle scene.

Sundara Karma – Better Luck Next Time
(27 ottobre, Is Right)

Il terzo album è solitamente quello che può confermare o meno il successo di una band ed i Sundara Karma sono arrivati a quello che si potrebbe definire il loro momento della verità. Il risultato di una sorta di ritorno alle origini è “Better Luck Next Time”, album perfetto da ascoltare con gli amici durante una nottata trascorsa fuori casa. Un lavoro dal sound giovane, una ventata d’aria fresca in un panorama musicale ormai quasi stagnante.

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