Partiamo dalla coda: abbiamo nuovamente bisogno di assistere a un concerto dei Bauhaus, di un tuffo anima e corpo agli albori degli ’80, quando il gruppo di Northampton, al culmine di un apice creativo ineguagliabile, divenne il ground zero del movimento dark, intendendo con tale sommaria locuzione l’ala tenebrosa del post punk? La risposta al quesito non può che risultare affermativa, almeno a scrutare un Alcatraz di Milano al limite del sold out, al cui interno un pubblico d’età molto eterogenea appare così ansioso di vedere gli inglesi salire sul palco da trasformare il locale meneghino in un aggiornamento insieme eccitante e nostalgico del vecchio Batcave. Certo, né gli Alien Sex Fiend aprono lo show, né campeggia una scenografia di genere con annessi richiami ai film horror statunitensi degli anni ’30, né vagano confusi quei fricchettoni di campagna che un tempo rimanevano accecati dal glamour di Soho e dall’opportunità di danzare sui carretti funebri della morte. Tuttavia, quando i britannici emergono dal buio profondo del dietro le quinte in formazione originale, la folla subito li riconosce, li sente parte di sé, come un marchio atavico impresso a fondo nella psiche che si riattiva automaticamente a ogni loro spettacolo, invero appena una manciata negli ultimi due lustri.

Il set inizia con il ringhioso feedback di chitarra di un Daniel Ash dai capelli elettrificati e stretto in una giacca sgargiante, prima che il quartetto si lanci in una resa estremamente chiassosa e ballabile di “Rosegarden Funeral Of Sores”, brano di pugno di John Cale. Una cover che conferma quanto, rispetto alle allora band coeve e agli epigoni successivi, i Bauhaus, al netto delle tematiche oscure trattate, siano sempre stati una realtà energica e vitale, lontana da approcci nevrastenici e dolciastre mellifluità adolescenziali. Un incrocio fisiognomico tra lo Yul Brynner di “The King And I” versione Broadway, il malvagio Imperatore Ming di “Flash Gordon” e il Tomas Milian di “Traffic”, Peter Murphy calca il tavolato con la disinvoltura scattante di un felino e la ieraticità di un oracolo, roteando occhi e bastone sulla folla giubilante attraverso posture da amletico flâneur. Meno pendente e pallido del periodo giovanile, con quasi i medesimi zigomi appuntiti, il frontman regala alla torma una performance all’altezza delle aspettative, mostrando un istrionico talento teatrale che non appassisce nonostante il trascorrere degli evi. Durante il funk minimalista di “A God In An Alcove” sbatte una corona d’oro contro la coscia a mo’ di tamburello e poi, al termine del pezzo, si cinge il capo con essa, suona melodica e percussioni nell’entusiasmante e velvettiana “She’s In Parties”, recita visionario l’alienazione mentale di “The Spy In The Cab”, imita il Cristo crocifisso poggiando l’asta del microfono sulle spalle piumate in “Stigmata Martyr”, maneggia, all’occasione, un synth rudimentale. Un vero trascinatore weimariano che, nel momento apicale del dramma messo in scena, non manca di far trapelare una salutare vena ironica, giocando con gli sguardi e il colore cangiante delle luci.

Il bassista David J e il fratello, il drummer Kevin Haskins, entrambi elegantissimi e muniti degli occhiali da sole d’ordinanza, formano dal vivo una sezione ritmica gigantesca e tribale, capace di prendere a pugni gli astanti con le classiche “Double Dare” e “In the Flat Field”, regalando altrove, specialmente nel pezzo goth-disco da antonomasia (“Kick In The Eye”), groove raffinati di influenza dub reggae. Quattro corde e batteria, dunque, da gran gala, benché tocchi ad Ash rivestire il ruolo di principale artefice sonoro della serata, grazie a una prestazione pirotecnica in grado di spaziare dal sassofono lamentoso di “In Fear Of Fear”, ai caratteristici effetti eco di una mai banale “Bela Lugosi’s Dead”, dalla chitarra acustica che timbra la sempre coinvolgente “The Passion Of Lovers” e interviene nella plumbea “Silent Hedges”, al rumore bianco della viscerale “Dark Entries”.

Dopo una brave pausa, i musicisti tornano on stage per il previsto encore, interpretando a dovere un trio di canzoni che odorano di tributo alla stagione del glam rock e alle sue varianti metropolitane, tributo completato da un significativo cambio di abbigliamento, ora tutto brillantini e luccicori pur se su sfondo nero. Murphy omaggia i totem di una vita con una prova vocale versatile e controllata, malgrado a tratti il volume a palla degli strumenti ne sommerga l’impatto e le sfumature: l’Iggy Pop notturno di “Sister Midnight” e i pimpanti T. Rex di Telegram Sam spalancano le cateratte per il rituale liberatorio di “Ziggy Stardust”, nel corso del quale il singer reitera l’esorcismo del proprio Bowie interiore, riuscendo ancora una volta nell’impresa di scacciare il demone della dipendenza idolatra. La serata si conclude trionfalmente, ma, alla chiusura delle porte, serpeggia qualche rammarico a cagione dei settantacinque minuti scarsi di esibizione, durata un po’ esigua considerando il repertorio complessivo degli albionici (gridano vendetta le esclusioni di “St. Vitus Dance”, “Nerves”, “Hollow Hills”, “The Man With the X-Ray Eyes”, “The Mask”). In fin dei conti, però, i Bauhaus restano degli artisti gourmet, interessati alla qualità della proposta invece che al tonnellaggio della stessa. E anche per questo li si ama alla follia.

Setlist

Rosegarden Funeral Of Sores (John Cale cover)
Double Dare
In the Flat Field
A God In An Alcove
In Fear Of Fear
Spy In The Cab
She’s In Parties
Kick In The Eye
Bela Lugosi’s Dead
Silent Hedges
The Passion Of Lovers
Stigmata Martyr
Dark Entries

Encore

Sister Midnight (Iggy Pop cover)
Telegram Sam (T. Rex cover)
Ziggy Stardust (David Bowie cover)

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