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Gorillaz – Cracker Island

Li avevamo lasciati a saltare da un angolo all’altro del mondo tramite i portali che disseminavano il coloratissimo “Song Machine, Season One: Strange Timez”; stavolta, con “Cracker Island” i quattro eccentrici componenti dei Gorillaz, trasferitisi a Los Angeles dopo la dipartita dei vecchi Kong Studios londinesi, sono alle prese con una setta religiosa, The Last Cult, prevedibilmente creata da Murdoc. Il bassista e villain fisso del gruppo è particolarmente sul pezzo — non solo fonda una religione su se stesso, ma indica ai suoi adepti il povero 2-D come vittima sacrificale. Seguono incursioni rocambolesche per salvarlo e un (altro) arresto: ma per i Gorillaz, d’altronde, sono le solite storie di ordinaria follia.

“C’è una moltitudine di culti, nel mondo. Sono ovunque. A renderli tali è l’avere una qualche idea discordante con la normalità, qualunque essa sia. Questo è ciò che si definisce un culto” osserva Damon Albarn, padre della band virtuale, nata ormai più di un ventennio fa dal genio creativo suo e dell’amico fumettista Jamie Hewlett. Riguardo a chi popolerebbe quest’isola di crackers – ossia di “matti”, secondo il gergo americano – il frontman dei Blur non le manda a dire: “Suppongo che Cracker Island sarebbe come una cassa di risonanza per l’alt-right. Sarebbe come raggrupparli tutti su un’isola. Digitalmente, è quello che stanno facendo, ad ogni modo.”

Da un clima post-pandemico fatto di incertezze per il futuro, paura, complotti e fake news come se piovessero, del resto, non poteva che nascere un concept del genere. Eppure Albarn vi contrappone una completa antitesi sul lato musicale: laddove ci si poteva aspettare una tracklist volutamente disorganica, a rappresentare quello stesso concetto di caos che emerge dai testi, l’ascoltatore si trova invece di fronte a un disco sorprendentemente breve e compatto. Sole dieci canzoni, tutte accomunate dal sound pop danzereccio – e al contempo alternativo come pochi – più classicamente Gorillaz che ci sia. Certo, ci sono le piccole variatio di sorta: i toni soft-funk di “Tarantula”, la parentesi autobiografica di “Baby Queen”, “Skinny Ape” e le sue atmosfere oniriche (miste a una sezione di batteria di ispirazione punk-rock, come suggerito da Greg Kurstin, produttore del disco al fianco di Remi Kabaka Jr). Capitolo a parte per “The Tired Influencer”, una piccola perla di tintinnii di piano, synth nostalgici e la voce di Siri che (non) risponde ai quesiti di 2-D: “Where your love/Is it meant to be? (I found this on the web, I don’t have the answer for that)”.

Ovviamente, non è un disco dei Gorillaz se non comprende collaborazioni con gli artisti più disparati, e dunque anche stavolta troviamo una vasta schiera di ospiti d’eccezione. Il basso di Thundercat aggiunge un tocco in più alla title track, in “Oil” le voci di Albarn e di Stevie Nicks si amalgamano alla perfezione, in “Silent Running” il timbro di Adeleye Omotayo si adatta deliziosamente alle vibes anni ‘80 della strumentale. “New Gold” è un altro punto forte dell’album, un’esplosione allucinogena che deve tantissimo al tocco dei Tame Impala, i cui ritornelli ipnotici si intervallano alle strofe rap di “Bootie Brown.” In coda al disco, gli ultimi due featuring: Bad Bunny in “Tormenta” si inserisce benissimo negli stilemi della band, contribuendo a creare un pezzo pop-reaggaeton musicalmente molto interessante; dall’incontro con Beck, altro artista poliedrico, ha luogo “Possession Island”, una ballad di piano (e non solo) che termina l’album su una nota di malinconia. Non sono passati nemmeno quaranta minuti, ma non si può dire di non averli apprezzati dall’inizio alla fine.

Non è groovy come “Demon Days”, non è psichedelico come “Plastic Beach” e non è variopinto come “Song Machine”. Ma “Cracker Island” riesce ugualmente nell’intento di fare ciò che contraddistingue il progetto Gorillaz da ventidue anni a questa parte: catturare un’istantanea del panorama musicale odierno e filtrarla attraverso le proprie, bizzarre e inconfondibili lenti. Arrivata alla sua ottava fatica, la premiata ditta Albarn-Hewlett non sembra essere intenzionata ad abbassare il livello qualitativo — e finché i due si manterranno su questa lunghezza d’onda, le (dis)avventure di Murdoc, Russel, Noodle e 2-D continueranno a non deluderci.

Tracklist

01. Cracker Island feat. Thundercat
02. Oil feat. Stevie Nicks
03. The Tired Influencer
04. Silent Running feat. Adeleye Omotayo
05. New Gold feat. Tame Impala and Bootie Brown
06. Baby Queen
07. Tarantula
08. Tormenta feat. Bad Bunny
09. Skinny Ape
10. Possession Island feat. Beck

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