NUOVE USCITERECENSIONI

Grave Digger – Symbol Of Eternity

Con la media di un album ogni ventiquattro mesi, sintomo di una regolarità ai confini della pignoleria, i Grave Digger giungono, con “Symbol Of Eternity”, al ventunesimo album sulla lunga distanza in quarantadue anni di carriera, un curriculum difficilmente eguagliabile da coevi colleghi di settore. Forgiati con l’acciaio e la Storia, distinguibili tra loro per qualche sfumature lirica o per un lieve surplus sinfonico, i dischi dei tedeschi rappresentano un flusso ininterrotto di minime variazioni sul tema, in ottemperanza a un heavy/power anthemico e roccioso, a tal punto tradizionale da suscitare, oggi, qualche inevitabile sbadiglio. L’innovazione e la freschezza non abitano, infatti, dalle parti di Gladbeck, così come rappresenta una costante il turnover della line-up, con le gravi perdite di Uwe Lullis e Ronnie Schmidt a sublimarne l’annosa precarietà.

Due brutti colpi assorbiti grazie agli sforzi encomiabili di Axel Ritt, chitarrista in formazione ormai dai tempi di “The Clans Will Rise Again” (2010), costretto a piegare man mano il proprio virtuosismo alle esigenze del gruppo, raggiungendo risultati complessivi poco più che dignitosi. La recente abitudine di Chris Boltendahl, poi, di tornare su tematiche già ampiamente trattate, dalla Middle Ages Trilogy alla Scozia in lotta per l’indipendenza, non ha giovato molto alla causa, eppure il metodo non pare conoscere censura, visto il recupero, nel nuovo album, di un evento, quello delle Crociate, già protagonista dello splendido “Knights Of The Cross” (1995).

Cavalieri templari, saladini, stupri, saccheggi, massacri in nome di un Dio soltanto apparentemente benevolo: figure e tropi di un Medioevo stereotipato che riprendono a popolare i brani dei teutonici, a partire da una abbrivio – compresa la breve l’intro orchestrale “The Siege Of Akkon” – epico e roboante, corroborato dagli abituali cori da raduno e da refrain di canterina contagiosità (“Battle Cry”, “Hell Is My Purgatory”, “Kings Of The Kings”). Il lotto continua per la maggior parte sulla falsariga dell’inizio, intercalando pezzi combattivi e dalla ritmica sostanziosa quali “Heart Of Warrior” e “The Holy Warfare” a granitici mid-tempo a presa rapida (“Nights Of Jerusalem”, “Sky Words”), tutti proni al cospetto della roca vocalità del singer e tanto colmi di richiami autoreferenziali da rientrare nella florida categoria del già sentito.

Migliori vibrazioni, benché non baciate dall’originalità, forniscono le power ballad “Symbol Of Eternity” e “Grace Of God”, la prima modellata sull’oscurità melodica di “The Keeper Of Holy Grail”, la seconda aperta da una chitarra acustica dai leggeri toni folk e avvolta all’interno di una patina doom che non dispiace, considerati i molteplici cliché del platter. Dimenticabile il terzo, tedioso lento dell’album, “The Last Crusade”, mentre in chiusura spunta “Hellas Hellas”, cover di un brano scritto da Stamatis Mesimeris e Vasilis Papakonstantinou, comparso sulla compilation “Lost Tunes From The Vault” (2003) e qui riproposto nell’originale greco: divertente, ma nulla di trascendentale.

“Symbol Of Eternity” sembra un titolo appositamente ritagliato dai Grave Digger su sé stessi con malcelati intenti celebrativi. L’album, però, soffre di un sound ultraclassico, statico e a tratti soporifero, in cui anche la proverbiale energia che il gruppo era capace di emanare non sempre mostra il mordente necessario. Forse i becchini teutonici farebbero meglio a intraprendere ex novo la strada meno greve dei concept horror invece che proseguire, dopo il non irreprensibile “Fields Of Blood” (2020), la consuetudinaria routine di sangue e battaglie.

Tracklist

01. The Siege Of Akkon
02. Battle Cry
03. Hell Is My Purgatory
04. King Of The Kings
05. Symbol Of Eternity
06. Saladin
07. Nights Of Jerusalem
08. Heart Of A Warrior
09. Grace Of God
10. Sky Of Swords
11. Holy Warfare
12. The Last Crusade
13. Hellas Hellas

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