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I Hate My Village – Nevermind The Tempo

Certo che bisogna avere le palle quadrate per mandare a quel paese gli schemi, specialmente nel rigoroso mondo della musica. Ancor più audace è il voler riportare sullo spartito – o, a questo punto, ciò che ne rimane – la casualità delle cose, quell’inconsueta fiammella del bello inaspettato, nato da incontri apparentemente incompatibili.

È in questo che gli I Hate My Village sono maestri, nel dare suono ad alchimie che funzionerebbero solo se pescate dal destino e sbattute, al momento giusto, in un frullatore: per quello il tempo viene scansato – anche se, sotto sotto, c’è sempre, non abbiate timore –, i fini si sgretolano, le categorie… bhe, parola bandita in questo caso.

Nevermind The Tempo” è più ambizioso dello stuzzichevole self-titled di debutto, vuoi perchè l’esordio nasce come progetto di due e finisce come progetto di quattro, vuoi perchè, per l’appunto, i quattro adesso lavorano insieme sin dall’inizio, dopo cinque anni di mutazione totale per il mondo e per i loro main project.

E allora prendi l’amore incondizionato per l’afrobeat, da fil rouge predominante a strenuo operaio cosparso di colla, che si scuote e acchiappa contaminazioni a destra e a manca, stratificando clamorosamente il pazzo involucro del disco: la chitarra di Adriano Viterbini si fa più stridula (“Artiminime”), scuote il fuzz ed evoca sregolati lamenti in forma di girandole punzecchianti, svisionate psichedeliche che paiono staccate e acquisite dall’ultimo, caleidoscopico “Next Big Niente” dei suoi Bud Spencer Blues Explosion.

Sei corde che muta le sue fattezze ad ogni cambio di traccia, gira sorniona nell’arpeggio che circoscrive le danze tribali di “Water Tanks”, avanza claudicante, come ipnotizzata da un sapiente incantatore, tra sospiri orientali e i conseguenti strattoni space rock del “refrain” (se possiamo definirlo così) della stramba “Mauritania Twist”.

Fabio Rondanini gioca ad intermittenza col suo drumming, tra il mantenere salda la forma canzone – la silhouette più accessibile e genuinamente pop di “Jim”, oppure la dimensione chamber folk di “Broken Mic” – e smembrarla, in funzione di tempi e atmosfere che cercano paesaggi e linee temporali che sfidano l’onirico (“Dun dun”).

In quest’ultima azione lo aiutano Alberto Ferrari e lo stesso Viterbini, rispedendo verso la loro galassia di balli convulsi e sagome tutt’altro che definite ogni tentativo di riavvicinamento alla realtà canonica, il primo con le sue vocals graffiate e strappate – ben più presenti e centrali rispetto al debut –, il secondo smazzandosi tra synth e ghirigori chitarristici: ne vengono fuori le pulsioni noise/avant-rock/electro di “Erbaccia” e le distorte sgroppate alt-rock di “Italiapaura”, “Eno degrado” e “Come una poliziotta” – muri di suono e esigenze sperimentali che abbiamo tastato in “Volevo Magia”.

Condensare in qualche parola come suona “Nevermind The Tempo” è lavoro per intellettuali, o per psicopatici… dipende dai punti di vista: qui non troverete ragione, né tantomeno pragmatismo, solo un gagliardo ritratto sonoro di un estro senza tempo e privo di alcuna misura.

Tracklist

01. Artiminime
02. Water Tanks
03. Italiapaura
04. Enodegrado
05. Mauritania Twist
06. Erbaccia
07. Jim
08. Dun dun
09. Come una poliziotta
10. Broken Mic

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