In occasione dell’uscita del quinto album in studio “Stone“, abbiamo chiacchierato col cantante, chitarrista e fondatore dei Baroness, John Baizley, per saperne di più sul nuovo disco e su passato, presente e futuro della band statunitense.
Ciao John e bentornato su SpazioRock, prima di tutto come stai e come stanno andando le cose?
Ciao a tutti, è un piacere essere qui con voi, è un periodo molto intenso ma ne sono immensamente felice, stiamo lavorando con la casa discografica per l’uscita del nuovo disco, poi stiamo letteralmente facendo da noi i nostri video musicali, ci prende molto tempo ma sappiamo che lo facciamo per portare nel mondo il nostro nuovo lavoro quindi ne siamo davvero entusiasti.
Iniziamo subito ovviamente col parlare dell’album “Stone”, avendo avuto la possibilità di ascoltarlo in anteprima sono stata molto colpita dalla ricchezza e dalla stratificazione del suono. Parlaci di come siete arrivati a questo livello compositivo.
Il disco è nato proprio durante la pandemia, in un momento in cui il mondo era completamente chiuso e, diciamocelo, c’era poco da fare.
Abbiamo preso questo tempo per riflettere, a livello di band, su cosa fosse importante, cosa ci piacesse di più, come una lunga pausa di introspezione e questo è stato un importante punto di partenza.
Poi bisogna ricordare che questo è a tutti gli effetti il nostro primo disco con la stessa line up del precedente, prima di questo non era mai successo che rilasciassimo due dischi di fila con le stesse persone, è sempre accaduto che un membro lasciasse o che succedesse qualcosa tipo un terribile incidente col tour bus (ride, i Baroness sono però davvero stati coinvolti in un incidente con il tour bus nel 2012 vicino Bath in Inghilterra, ndr). Troppe volte ci sono state cose che si sono messe sulla strada della nostra carriera e ci hanno in qualche modo impedito di avere stabilità nella line up. Sicuramente l’ingresso di Gina (Gleason, seconda voce e chitarra, ndr) è stato un bel cambiamento però, ad esempio, al momento del suo arrivo lei non ha voluto essere il membro della band che modifica tutto, quindi è entrata con un po’ di soggezione, di sicuro anche per il suo grande rispetto per Pete (Adams chitarrista della band fino al 2017, ndr). Ora invece il suo impegno è totale, abbiamo lavorato insieme anche al mixaggio del disco, così come quello di Sebastian (Thomson, batterista della band dal 2013) e Nick (Jost, bassista dal 2013), sento che anche loro finalmente possono esprimersi al 100% e il nuovo disco racchiude tutto questo. Di sicuro un’altra cosa fondamentale che ci ha aiutato a unirci come band sono stati i lunghi tour fatti insieme, ci hanno permesso di crescere e di raggiungere una connessione molto intensa. Mettendo tutti questi elementi insieme è come se finalmente ci sia stato un click tra di noi che ci ha portato a comporre in questo modo, uno di noi viene fuori con un riff o un’idea e gli altri riescono a capire esattamente cosa fare.
A livello soprattutto vocale si nota moltissimo in “Stone” lo spazio che ha avuto Gina Gleason per questo album ed è un lavoro eccezionale.
Assolutamente, è una musicista incredibile, ha un’etica del lavoro e dell’impegno altissima e dà davvero il massimo in ogni momento, si è integrata perfettamente e il lavoro che hai notato sulle linee vocali è il frutto di tutto questo, ne siamo molto fieri e soddisfatti. Noi non siamo una band in cui ti viene assegnato un ruolo e basta per cui non è facile entrare e basta, stare lì e ricoprire un ruolo, è necessario impegno e passione e lei li ha.
Ascoltando il disco, un altro elemento che colpisce è che si tratta sia di un lavoro contrassegnato dallo stile classico dei Baroness che da un grande lavoro di sperimentazione. Dicci qualcosa in più sul processo creativo di “Stone”.
Non è stato un disco facile da creare, abbiamo inseguito ogni idea che ci sembrava buona, ogni singola idea quindi spesso ci siamo arenati ma alla fine siamo riusciti a venirne fuori con un disco che ci soddisfa pienamente. Per fortuna ognuno di noi si è messo in gioco al massimo, non abbiamo risparmiato le energie. All’inizio eravamo tutti lontani e isolati l’uno dagli altri per colpa della pandemia, quindi ognuno di noi ha scritto qualcosa in solitudine che è decisamente atipico nell’ottica di scrivere un disco. Quando poi ci siamo riuniti è come se tutto sia andato naturalmente al suo posto e, altra cosa molto importante ci siamo resi conto di poter autoprodurre il disco, certo con qualche aiuto esterno ma solo nelle fasi finali, come quello del produttore Joe Barresi ma prima di questo non c’è stata nemmeno una quinta persona ad assisterci, probabilmente è stato rischioso affidarci solo a noi stessi sotto tanti punti di vista ma ci abbiamo voluto credere. Abbiamo affittato un AirB&B con una buona acustica e per un mese abbiamo provato anche per 12 ore al giorno, ovviamente ne siamo usciti con una tonnellata di musica, davvero, e poi abbiamo realizzato che non avevamo nemmeno una parola per i testi. Questo mi ha colpito e ho compreso che anche questo è legato all’isolamento in cui eravamo, non avere contatti sociali, non andare in tour, non fare esperienze mi ha creato una specie di blocco dello scrittore e a ciò è sicuramente legata la malinconia che a volte pervade il disco.
L’ansia, la tristezza, la paura sono diventate cose da affrontare e sono riuscito a farlo solo dopo la riapertura verso il mondo anche se sento che ancora pervadono il nostro nuovo modo di vivere, questo ha influenzato tantissimo le liriche e le linee vocali.
Anche la scelta di integrare molto di più la voce di Gina nei brani, non solo come seconda voce, è nata da questo desiderio di aprirci verso nuove prospettive, abbiamo usato le nostre due voci allo stesso livello per scrivere un nuovo capitolo della storia di questo disco e della band.
Sicuramente lo immagini già e in tanti l’avranno già chiesto ma è arrivato il momento di questa domanda: per la prima volta dopo 16 anni di album in studio, rilasciate un disco che non si chiama come un colore, come è nata questa scelta?
Certo, è una domanda molto gettonata. Personalmente non ho mai amato i titoli troppo lunghi o troppo specifici per i dischi, ma al di là di quello penso sempre che i titoli dei dischi vadano interpretati secondo il proprio sentire personale e questo vale per ogni album che abbiamo fatto finora. Non so nemmeno spiegare come sia nato questo titolo, sicuramente vuole rappresentare qualcosa di importante per noi, può essere interpretato come un indizio del significato dell’intero album ma sta davvero a chi ascolta trovare il proprio senso. Per quanto riguarda la questione colori è stata una situazione del tipo ora o mai più, un desiderio di interrompere un ciclo e iniziarne un altro, qualcosa di diverso. Mi sono sempre piaciuti i titoli semplici, che fanno venire in mente un’idea o un sentimento che l’ascoltatore può poi collegare a ciò che trova all’interno dell’album. A me personalmente “Stone” da l’idea che ci sentiamo stabili per la prima volta da tanto tempo, inoltre potrebbe anche essere l’inizio di una nuova serie, dopo i colori.
Un altro aspetto molto importante del lavoro dei Baroness sono le copertine dei dischi che crei tu stesso. Com’è nato l’artwork di “Stone”?
Beh prima di tutto è stato un’altro aspetto di questo disco creato in modalità fai da te, letteralmente. Eravamo molto preoccupati per il fatto di non avere confronti esterni di perderci tra le nostre idee nel tentativo di perfezionare tutto a livello maniacale. Pensa alle tecniche digitali: potevamo tornare sulla stessa parte anche milioni di volte ed è molto facile non riuscire più a vedere le cose in prospettiva. Quindi ad un certo punto ci siamo resi conto che sarebbe stato meglio evitare di incasinarci, fermarci e focalizzare su ciò che poteva apparire subito buono, non guardare i difetti, puntare all’immediatezza. Allo stesso modo, nel creare l’artwork del disco, ho voluto ricreare questo mood: non cercare la perfezione, applicare lo stesso principio. Mi sono procurato il materiale, ho fatto un po’ di ricerche e qualche bozzetto ma poi, quando ho avuto tutto chiaro nella mia mente, mi sono lanciato, ho cominciato a disegnare e ho semplicemente lasciato che succedesse, ho modificato pochissime cose e solo perché ho sentito davvero di doverlo fare ma è stato creato totalmente di getto. In più io lavoro con materiali per cui non puoi fare molte modifiche, non puoi coprire troppo, non puoi aggiustare, devi prendere quello che viene e basta. Sembra banale ma è tutto qui, mi sono seduto nel mio studio per un paio di settimane e ho lasciato andare mani e mente, un pezzetto alla volta, come del resto nello spirito del disco.
Anche questa è una domanda piuttosto ovvia ma importante: tornerete in Italia per la promozione del disco?
Assolutamente! Di certo parliamo del 2024 ma l’Italia è già tra i nostri piani, è un Paese in cui stiamo bene e ci sentiamo sempre bene accolti dal pubblico, che sia un piccolo club o un grande audience. Ci siamo divertiti molto l’anno scorso quando abbiamo suonato al Rock The Castle e poi ricordo anche con grande emozione quando abbiamo suonato al Firenze Rocks, in apertura ai Guns N Roses. Quella è stata un’esperienza incredibile per noi, folle, non potevamo credere di essere in quel bill. Ed era stato anche un grande show dei Guns N Roses (ride, ndr). Quindi si, sicuramente ci vedrete presto in Italia.
Visto che parliamo del nostro Paese: avete condiviso il palco con molte band stoner italiane, ce n’è per caso una che vi è rimasta nel cuore?
Credo che la scena stoner e in generale metal italiana sia parecchio viva anche se più piccola se comparata alle scene britanniche o scandinave, eppure tantissime band italiane hanno fatto la storia della musica, da ragazzino amavo band come i Goblin, ero colpito da come componevano e presentavano la loro musica, un modo così unico che per me era diverso da ciò che ascoltavo di solito. Ho ascoltato anche molto prog italiano anni 70, purtroppo non parlo la lingua e non riesco a ricordare i nomi dei gruppi ma ricordo che quando si doveva ancora scaricare la musica da Limewire o roba del genere facevo incetta di quel genere musicale. Il mondo del cinema mi ha avvicinato tanto alla musica italiana, grazie appunto alle colonne sonore dei film di Dario Argento e ovviamente grazie ad Ennio Morricone, hanno rappresentato tantissimo per me. Questo per quanto riguarda il passato e la mia storia come musicista, nel presente invece abbiamo suonato spesso e con grande piacere con una band chiamata Ufomammut. Oltre ad essere bravissimi musicisti sono anche dei ragazzi con cui è stato facile fare amicizia, specie negli esordi sia nostri che loro e ci capita spesso di rincontrarli in giro.
Per chiudere, vuoi dire qualcosa ai fan italiani?
Semplicemente ascoltate “Stone” e aspettateci, ci vediamo on the road.