La pubblicazione su Fireflash Records, lo scorso maggio, di “1901 – The First Mother”, ha rappresentato, a sei anni dall’ultimo “Stygian”, il ritorno dei The Modern Age Slavery, una delle band nostrane più originali e significative in ambito death/deathcore ed estremismi affini. Un nuovo album prima parte di una trilogia ambiziosa, imperniata sull’avvento dell’età moderna e sulle schiavitù imposte dall’uomo a sé stesso, di cui il chitarrista e principale compositore Luca Cocconi ci racconta genesi e sviluppo, attraverso un’intervista ricchissima di aneddoti e ricordi. Una chiacchierata a dir poco esaustiva, che va a toccare tanti aspetti del mondo della musica, in un viaggio capace di far emozionare e riflettere anche coloro poco avvezzi a certe tipologie di sonorità, molto lontane dal mainstream e partecipi di una cultura rock/metal ancora lungi dall’affermarsi in Italia.

Ciao Luca e benvenuto sulle pagine di SpazioRock. Innanzitutto come stai? L’Emilia Romagna, in queste ultime settimane, ha vissuto una situazione tragica per l’alluvione abbattutosi sui suoi territori.

Io abito in provincia di Reggio Emilia, per la precisione a Montecchio Emilia, che è conosciuta per un motivo, perché ci abita Orietta Berti. Allora, qua da noi, diciamo zona Parma, Reggio Emilia, anche Modena, è andato tutto abbastanza bene. Non c’è stato nulla di preoccupante. Il grosso l’ha fatto giù, verso la zona adriatica, la Romagna, quindi Forlì, Cesena, Faenza. La mia compagna lavora a Faenza e mi diceva che là era un delirio totale. Lei lavora all’AlphaTauri, quando è accaduto il disastro, con l’acqua che ha invaso l’autostrada, faceva il turno della mattina, quindi è riuscita prima di pranzo a tornare su. Mi ha fatto vedere anche dei filmati di suoi colleghi, è successo un macello. Nel 2023 queste cose sono inconcepibili, ma è sempre il solito discorso, i comuni si intascano i soldi destinati alle bonifiche e agli interventi sul territorio. Ci sono delle città rovinate, negozi distrutti, persone senza casa, gente che magari si è fatta un culo enorme per costruirsi una vita e poi si ritrova senza niente dal giorno alla notte. Hanno annullato anche il Gran Premio di Imola, il circuito era tutto allagato. Ma questo è il meno rispetto alla tragedia che si è consumata.

Passiamo ad argomenti più leggeri, partendo da una considerazione da redattore: appartieni al novero ristretto dei musicisti italiani di ambito metal che sono riuscito a intervistare, una considerazione che, portata a livello generale, fa riflettere su quanto il genere, dalle nostre parti, continui a restare appannaggio di una nicchia di appassionati. Quali sono le tue impressioni al riguardo, visto che vivi dal di dentro tale situazione?

Allora, diciamo che di base, come tu ben saprai, l’Italia non è proprio un paese dedito al rock, e parlo soltanto di rock, perché il metal, purtroppo, non lo considero neanche. Il metal ha la sua nicchia, c’è gente appassionata, a volte si crea una sorta di “cerchio privato”, ma non si riesce mai ad avere quella visibilità giusta per coinvolgere la massa. In Italia c’è stato un periodo che io, per fortuna, ho vissuto in pieno: ti parlo di metà anni ‘90, quando il rock faceva parte delle classifiche, c’erano i Timoria, i Bluvertigo, i Marlene Kuntz, e in quella fase la gente si stava abituando a sonorità un po’ diverse dalle solite cose. Poi, c’è stato l’avvento della prima ondata hip hop italiana, gli Articolo 31, i Gemelli Diversi, i Sottotono, insomma, tutta quella roba lì; alcune di queste band ce l’hanno fatta, però sono durate poco. Tutto ciò che la gente aveva assimilato, è andato perso, questo perché la cultura rock in Italia, sfortunatamente, non è mai esistita. Ed è un peccato perché lo dico sempre, sia nelle interviste che quando sono all’estero a suonare, che nel nostro Paese ci sono delle band incredibili. Sai, lavoro con la musica perché da tantissimi anni produco, ho uno studio (Audiocore Studio, ndr), ho registrato una valanga di formazioni italiane, non so, ti cito i Distruzione, i Darkend. Ho inciso un sacco di dischi anche per realtà minori, sai? Ho a che fare con musicisti tutti i giorni e ti posso confermare che ce ne sono di quelli bravi, eccome!  Il problema è che anche una grossa etichetta non investe in una band che nel proprio Paese, dove dovrebbe avere i numeri più grossi, vende pochissime copie. E, dunque, perché investire migliaia di euro per un gruppo che non funziona, che non ha la possibilità di partecipare a determinati festival, che non ha le radio che lo supportano? Quando, poi, metti fuori il becco, ti accorgi che ci sono formazioni come i Fleshgod Apocalypse che spaccano il culo.

Durante l’Isola Rock di Verona, in questo senso, non vi siete risparmiati …

All’Isola Rock è andata molto bene, hanno detto che in tutta la giornata ci sono state più di 1200 persone e quando abbiamo suonato noi, che eravamo headliner, era pieno come un uovo. Il fatto è che fai una serata così, poi, la settimana dopo suoni nel localino e non ci sono neanche dieci persone, passi proprio dalle stelle alle stalle. Magari in questi locali fanno il pienone le cover band, che poi sono sempre le stesse quattro o cinque che suonano.

Parliamo del nuovo disco dei The Modern Age Slavery, ovvero “1901 – The First Mother”, pubblicato lo scorso maggio a sei anni di distanza dal precedente “Stygian”. Un lunga assenza dovuta soltanto alla pandemia?

Allora, partiamo dal presupposto che, prima della pandemia, avevamo già quasi tutto il disco finito, diciamo un buon tre quarti, mancavano ancora un paio di canzoni. Poi, in quel periodo lì, eravamo anche in tour, abbiamo fatto parecchie date e quindi l’obiettivo era quello di farlo uscire dopo tre anni da “Stygian”. C’eravamo organizzati per pubblicarlo nel 2020 e ci stavamo praticamente riuscendo, poi è arrivato il COVID-19, e ci siamo detti: “È inutile pubblicare un disco in un periodo nel quale non si suona”. Per noi, ma come ormai per ogni band di questo mondo, a meno che non si tratti dei Metallica, è vitale suonare perché i concerti sono la miglior promozione possibile. La gente ti viene a vedere, si gasa, diventa un tuo fan, soprattutto se ti rendi protagonista di belle performance, ti compra la maglia, il cd e chiaramente questo fa muovere tutto. Senza concerti, è stato molto difficile. Nel mentre della pandemia, comunque, ho scritto altri tre brani, perché ce n’erano due che ci piacevano, ma ne eravamo convinti fino a un certo punto. Così li abbiamo inseriti nel nuovo album e uno di questi è “Pro Patria Mori”, il primo pezzo della tracklist che, pensa, è stato scritto per ultimo, e di cui abbiamo anche girato il video.

Il nuovo lavoro è uscito su Fireflash Records e si tratta della quarta etichetta per altrettanti album. Ci racconti il dietro le quinte di questa sorta di ottovolante discografico?

Sì, prima la Napalm Records, poi la Pavement Entertainment, la label americana che in quel periodo lì era praticamente quasi fallita, infine la Innerstrength. C’è da dire che la Napalm di allora non aveva il roster di oggi, all’epoca era conosciuta per il folk e il gothic e il loro margine grosso di guadagno era rappresentato da band che suonavano quei generi. In ogni caso, abbiamo avuto la fortuna, o la sfiga, di firmare con Napalm, che è una signora etichetta, ma in un periodo in cui le cose non andavano benissimo. Ci ha messo sotto contratto e ha provato un po’ a fare con noi una specie di prova, anche perché i The Modern Age Slavery suonavano un genere che la Napalm non aveva mai trattato. Chiaramente, non siamo riusciti a vendere i numeri che pretendevano, perché all’epoca non eravamo nessuno. E quindi c’è stato un ricambio, hanno preso altre band da grosse etichette, gruppi, comunque, che garantivano delle vendite sicure, numeri che magari a una Roadrunner non andavano bene, ma che a Napalm bastavano. Hanno cominciato a fare questa politica e da lì sono cresciuti tantissimo, per arrivare dove sono adesso, hanno delle bande straordinarie. Oggi sono solo un gradino sotto a Nuclear Blast, ma sono alla pari con Century Media e Metal Blade; c’è anche l’Atomic Fire in grande crescita, hanno un bella scuderia, e siamo contenti di farne parte per tramite di Fireflash Records.

Rispetto agli altri lavori, “1901 – The First Mother” appare decisamente più raffinato e maturo, sia dal punto di vista del sound che delle liriche, quest’ultime scritte dal vostro cantante Giovanni Berselli. A proposito dei testi, possiamo considerare l’album un concept o qualcosa di molto vicino a esso?

Diciamo che l’album ha un filo logico. L’idea è quella di realizzare una specie di trilogia che tratti di importanti momenti storici, il primo dei quali è appunto il 1901, che sancisce l’inizio del ventesimo secolo e l’anno in cui è morta la Regina Vittoria. È tutto un po’ basato sull’avvento dell’età moderna e sulla schiavitù interiore di cui l’uomo è vittima e che può portare alla morte, concetti legati tra loro e che rispettano appieno il significato del nostro monicker. Il progetto di Giovanni, che noi abbiamo approvato totalmente perché molto bello, è di partire da qui per poi proseguire con l’età contemporanea, o leggermente più indietro, e terminare con la rappresentazione di un futuro post-apocalittico.

Per quanto concerne il songwriting, come vi siete divisi il lavoro? E quale contributo hanno dato Ludovico Cioffi e Federico Leone?

Abbiamo reso il sound molto più personale e sia Ludovico Cioffi che Federico Leone hanno dato il loro contributo. Allora, Giovanni scrive i testi e io sono il principale compositore della musica, preparo quello che può essere lo scheletro dei brani, magari anche qualcosa di più avanzato. Poi, comunque, Federico ci mette le sue parti di batteria, io gli do delle indicazioni, ma il suo stile, il suo tocco, si sentono parecchio. Lui è molto, molto bravo, è un musicista che ha un sacco di gusto e, quindi, voglio che lo riporti nei pezzi, mentre Ludovico, che, come me, suona la chitarra, mi ha dato una mano per quanto riguarda la fase di orchestrazione, benché i The Modern Age Slavery non siano una band symphonic; inseriamo qui e là qualcosa di ambient e del black metal, con la parte elettronica che curo personalmente. Ludovico, inoltre, si occupa delle backing vocals, perché è un bravissimo cantante e ho sfruttato altresì il fatto che ha una voce un po’ più tendente al black, diciamo così. Ciò crea un bel contrasto con il timbro di Giovanni, ma oltre a questo, il suo apporto, dai pad alle melodie, è stato importante e si sente, secondo me.

Sostanzialmente, avete aggiornato e migliorato ciò che di buono c’era nei tre album precedenti.

Esatto. Era, poi, l’obiettivo della produzione, che ho curato io insieme al mio socio dello studio (Simone Sighinolfi, ndr), e anche della composizione in sé. “1901 – The First Mother” è, infatti, un riassunto portato al massimo dei tre album precedenti: c’è la vena moderna, senti il black, il death, il deathcore, le orchestrazioni. Insomma, ho cercato di fare un mix, prendendo quello che abbiamo fatto di più bello. Dal vivo, poi, molte cose le noti, nel senso ti accorgi qual è il pezzo più funzionale, quello che fa muovere la gente, il brano che il pubblico ascolta a braccia conserte e via dicendo. Allora ho detto: “Facciamo magazzino di tutto quello che abbiamo vissuto e cerchiamo di portare al massimo tutta la composizione, tenendo conto proprio dell’impatto dei pezzi in sede live”.

Ludovico Cioffi si è occupato anche della copertina, che raffigura immagini strettamente legate ai testi. Un album, dunque, da considerare un’opera d’arte in ogni suo aspetto?

Abbiamo cercato, in questo disco, di collocare tutti i punti nel posto giusto, quindi dalla copertina al sound, dalla tematica, alla grafica. Se vedi bene, nell’artwork ci sono tre statue che possono farti capire che sei al cospetto di una trilogia, sono tre immagini della Regina Vittoria e quella centrale, praticamente, è deformata, come se stesse partorendo. Infatti, all’interno, si vede un occhio, che rappresenta il primogenito di qualcosa. In realtà, volevamo fare una cover bianca, non sto scherzando. C’eravamo anche stancati un po’ di fare tutte le solite copertine nere, poi Ludovico, che oltre a essere un bravissimo musicista, è anche un bravissimo grafico, ha detto: “Dai, cerchiamo di fare una copertina d’impatto, ma anche qualcosa di un po’ diverso. Magari non bianca, ma chiara”. E così ha unito la tematica con il colore e ne è uscito fuori quello che vedi.

Comunque, anche in passato, la cura per gli artwork è stata sempre notevole. Ricordo quella del debutto “Damned To Blindess”, davvero impattante.

Anche lì, vedi, abbiamo sempre cercato un po’ di variare. Le nostre copertine sono sempre state molto apprezzate perché comunque hanno sempre trasmesso il significato dell’album. Sulla copertina del primo disco c’era il tipo tutto bendato e sanguinante, la cover di “Requiem For Us All” era dedicato alla cattiva società, con il prete, l’uomo d’affari e dietro di loro l’Armageddon, “Stygian” aveva un artwork più dark, più oscuro, sempre opera di Ludovico.

A proposito di “Stygian”, Ludovico e Federico entrarono già a cose fatte?

Sì, era praticamente finito, poi ho fatto rifare a Federico le parti di batteria e Ludovico ha aggiunto alcune cose, gli ho fatto fare, se non sbaglio, un paio d’assoli, però, sì, era quasi completo perché comunque l’avevamo già cominciato a scrivere anni prima. Di fatto, questo è il primo album, che facciamo con la stessa line-up di quello precedente.

I pezzi del nuovo album sono molto diversi, benché legati da una matrice comune: ci sono quelli più death/deathcore quali “Pro Patria Mori” e “KLLD”, e altri che virano verso l’industrial come “Irradiate All The Earth”. Desiderio di variare il più possibile?

Io ascolto tantissima musica, non solo metal, quindi sono abbastanza openminded, mi piace inserire delle variazioni, anche se in piccole dosi. Ecco, chiaramente devono starci bene, non deve essere un qualcosa di forzato.

“The Hip”, “Lilibeth”, la cover di “Blind” dai Korn: tre canzoni che profumano di nu metal. Sei d’accordo?

Ho sempre cercato un po’ di rivisitare dei pezzi a nostro modo, mantenendo il marchio di fabbrica dei The Modern Age Slavery, perché a me non piace coverizzare pari pari i brani altrui. Inutile che ti dica quanto ami i Korn, abbiamo anche girato il video di “Blind”. Per quanto riguarda, invece, “The Hip” e “Lilibeth”, molti hanno parlato di nu metal. Guarda, sinceramente non è che “The Hip”, in particolare, l’abbia pensata proprio come se fosse un pezzo nu metal, anche perché c’è molto tupa tupa. Diciamo il groove centrale e il ritornello lo possono ricordare, ma, sai, ce l’ho un po’ nel DNA, perché comunque, oltre che con il death metal della Florida degli anni ’90, sono cresciuto con i Machine Head, i Pantera, i Fear Factory, quindi, volente o nolente, certo cose le ho dentro a prescindere.

“The Age Of Great Man” rappresenta, forse, il momento più sperimentale del lotto. Come è nata l’idea di comporre un brano simile?

Qui ho cercato di sperimentare, chiaramente nei limiti di quello che si può fare, del gusto, della bellezza, del contesto, anche perché Giovanni mi aveva detto qualche tempo prima di scrivere una canzone che sembrasse un racconto, un libro. Allora gli ho detto: “Va bene, dai, ci può stare. Adesso, vedo un attimino”. Mi è venuto in mente appunto di fare questa cosa qua, mettendo questa base abbastanza ritmata, ma allo stesso tempo lenta. Ci ho messo anche un po’ di black. Infatti, nel ritornello, la voce di Ludovico gli dà una pasta più scream, quella più marcia. Guarda, a me, sinceramente, mi piace fare una roba del genere. Da ascoltatore, faccio fatica ad arrivare in fondo a un disco che è tutto a cannone dall’inizio alla fine. Preferisco più sentire delle variazioni, anche magari nell’arco di dieci, undici pezzi –  arrivare in fondo a undici pezzi è già un traguardo. Tra l’altro, lo sai, oggi è cambiata la modalità d’ascolto: la gente guarda il video su YouTube e poi sente la canzone, ma non sa neanche di che album si tratti. Non c’è più l’attenzione di un tempo, perché la musica è stata svalutata; io sono dell’idea che quando prendi una cosa gratis vuol dire che non ha più valore, oppure ne ha molto poco, e, di conseguenza, chi la fa è considerato appunto uno che fa una cosa di poco conto, ok? Ed è sbagliato, perché comunque sia la musica fatta bene che fatta male ha dietro un grande impegno e, purtroppo, oggigiorno questo lavoro non viene più valorizzato.

Sì, è vero. Concepire, poi, una trilogia con dischi intimamente collegati tra loro, sembra più legata ai dischi progressive italiani degli anni ’70, periodo in cui predominava il culto dell’ascolto.

Guarda, mi fa proprio piacere che ti sia arrivato questo. Magari la gente si affeziona alla storia e inizia ad aspettare il seguito come se fosse una specie di serie TV; quando finisci la prima stagione, non vedi l’ora che ci sia la seconda, perché ti lascia lì con l’amaro in bocca e dici: “Cavolo, non vedo l’ora che cominci l’altra”. E quindi sì, noi diamo all’ascoltatore questo primo capitolo, si può già percepire che comunque ci sarà un continuo e la reazione forse sarà: “Voglio vedere tra due anni cosa accadrà”. Spero non ci sia più una pandemia di mezzo (ride, ndr). Insomma, l’obiettivo è quello lì. Sarebbe perfetto fare in sei, massimo sette anni, tre album, così da dare il giusto tempo di assimilare il disco, poi comincia a venire l’acquolina in bocca per il prossimo. Sarebbe una grande cosa, perché adesso un album ha tre, quattro mesi di gestazione precedenti l’uscita . Ai tempi delle mie vecchie band, con le quali abbiamo fatto anche delle cose importanti, usciva l’album e poi si girava il video, mentre oggi devi partire molto prima. Poi, anche se fai i concerti tra un anno e nella scaletta ci sono ancora i pezzi vecchi, comunque l’album lo promuovi, perché vai a suonare in certi posti dove, magari, non sei mai stato, ti vede altra gente, giri in tour in altre nazioni. Suonare, oggi, è tutto, anche per band di un certo livello, perché ormai il guadagno è nei concerti. Prima del COVID-19, c’erano gruppi che vedevi in Italia una volta l’anno, se andava bene. Ora li rivedi a cadenza annuale, se non semestrale, e fanno affari con il merch, perché di dischi non se ne vendono più. E Spotify ti paga zero.

Luca, i The Modern Age Slavery hanno suonato con band di grande lignaggio: Cannibal Corpse, Dying Fetus, Obscura, Sepultura, Origin, Gorgoroth, solo per citarne alcune. Quale vi ha colpito per organizzazione e preparazione? E siete riusciti a carpire qualche segreto da questi giganti?

Allora, sicuramente da quelle band lì impari a prescindere da tutti i punti di vista, in primis da quello organizzativo. Poi, quando è capitato di viverci anche insieme in tour bus per tante settimane, capisci molte dinamiche, nel bene e nel male. I Sabaton sono stati i più impressionanti, quelli che mi hanno stupito tantissimo. Quando abbiamo suonato quest’estate all’Hills Rock in Bulgaria, a Plovdiv, noi, praticamente, eravamo il gruppo che chiudeva la serata, eravamo l’after show dell’evento, tanto che quando i Sabaton finirono la propria performance, tutta la gente si è riversata lì, su un palco due enorme, ed è stata una figata. Siamo riusciti comunque ad andare nel pomeriggio, chiaramente avevamo un pass e così ci siamo diretti nell’area riservata alle band più grosse, a cui era destinato il main stage. Hai presente una ditta in movimento? Da lì comprendi cosa vuol dire avere tante spese, cosa vuol dire avere i facchini, cosa vuol dire avere i camion per te soltanto; i Sabaton, poi,  avevano una roba pazzesca, carro armato sul palco, una trincea militare, luci asincrone, leadwall computerizzati, sembrava il set di un film. Vederli proprio lì davanti, vedere i tecnici e tutta l’equipe a supporto, è stato, ti giuro, una cosa emozionante. Capisci perché quelle band lì oggi sono in un posto e domani in un altro, perché prendono così tanti soldi, perché riempiono le arene e i palazzetti. Ma, a parte i Sabaton, ci sono moltissime band da cui imparare, soprattutto per come tengono il palco. Ricordo che qualche anno suonammo all’Evisceration Plague Tour coi Cannibal Corpse, loro erano headliner e io, da fan boy, sono stato in estasi per tutta la durata dello show. Ricordo anche che quando abbiamo suonato insieme ai Suicide Silence – nel periodo in cui c’era ancora Mitch Lucker – al chiuso di un locale da duecento, trecento persone, con un caldo incredibile perché era agosto, in una Ferrara umidissima, la gente è rimasta parecchio contenta. In quelle occasioni ho sempre detto a Giovanni di prendere spunto dal modo di coinvolgere il pubblico da parte dei frontman, sono occasioni uniche. Gli spettatori, durante un live, si focalizzano sul cantante; certo, la band c’è perché ci deve essere, ma il resto lo fa il frontman e abbiamo cercato di prendere da chi è più bravo di noi. Poi, si imparano tante cose dai tour; il primo ha avuto le sue difficoltà, ovviamente, ma dopo, negli anni, quando ne hai fatti altri, prendi degli automatismi e anche delle piccole malizie, che comunque ti servono per gestire al meglio le situazioni.

C’è qualche band con cui avete suonato che ti ha deluso?

Allora, una band che a me piace molto, ma quella sera lì, secondo me, non ha fatto un grande show, è stata quella dei Brutal Truth. Non ricordo se era uscito già il nostro secondo disco, comunque suonammo con loro a Bologna, al Sottotetto e, ti dirò, non mi hanno molto entusiasmato. Bravi, certo, però avevo un hype maggiore, quindi mi aspettavo qualcosa di meglio. Sai, a volte può anche capitare, spesso può succedere di essere stanchi.

A proposito di cantanti, sono curioso di sapere come Giovanni Berselli riesca a conciliare carriera accademica, visto che è professore associato di robotica, e performance sul palco. Non è così usuale vedere un docente universitario impegnato in un contesto musicale estremo.

Diciamo che sì, ce la fa perché, comunque, negli anni è riuscito, come dire, a organizzarsi. Giovanni è un po’ un personaggio, in senso molto buono, s’intende. Da giacca e cravatta a star sul palco fa impressione, ma è anche un po’ il bello della cosa. Chiaro che a volte fa delle tirate allucinanti a livello lavorativo, perché magari ha delle lezioni, deve organizzare delle conferenze, quindi è sempre molto impegnato. Una volta, guarda, dovevamo andare a suonare in Germania e lui tornava dall’Alaska, mi pare, dove aveva partecipato a un convegno; lo siamo andati a prendere a Vienna col furgone, è atterrato e poi, in un attimo, siamo a suonare in Germania. Adesso ha, nel suo lavoro, uno status, che gli permette di avere un po’ più di tempo libero e riesce, dunque, a organizzarsi meglio, ma a volte capita – e ci è già successo – che magari per un tour non riesce a essere presente, perché sta via troppi giorni e deve fare delle cose molto importanti a cui non può mancare. Ma andiamo lo stesso, visto che abbiamo tutti i sostituti di tutti, siamo intercambiabili; sai, già si suona poco, poi, se quel poco non riesci a farlo, ti arrabbi ancora di più. Quindi abbiamo un batterista sostituto, un chitarrista sostituto e un cantante sostituto, con cui abbiamo già fatto anche diverse date e anche un tour.

Sostituire un cantate è così semplice?

Diciamo che, rispetto a un chitarrista o a un batterista, è un po’ più difficile, perché magari hai in testa quel tipo di frontman lì. Giovanni, oltre a essere, secondo me, molto bravo nel cantare, lo è anche a livello scenico, ha un po’ il suo stile, con il cappuccio, i piedi scalzi, quindi, chi ci viene a vedere, chiaramente nota lui per primo. Abbiamo trovato come sostituto questo ragazzo, che ha una voce incredibile, lo conosciamo da una vita e abbiamo anche registrato dei dischi della sua band, ha un po’ più quell’impronta deathcore, è tutto tatuato, più moderno, e sul palco è bravissimo. È un’altra cosa, logicamente. Ma io penso sia anche giusto così, perché, se prendi una persona per sostituire un’altra, questa deve anche metterci del suo. L’imitare è sbagliato, perché uno, magari, va in difficoltà e poi non è sé stesso, capisci? Io preferisco uno che vada sul palco e che canti i nostri pezzi con personalità,  dandogli sfumature diverse.

Luca, sei impegnato anche in altri progetti, dai Browbeat ai recenti Over A Barrel, che nel 2022 si sono resi protagonisti di un buon debutto come “Self-Inflicted Wounds”. Puoi spendere qualche parola in merito?

Esatto, io ho da tantissimi anni, dal ’98, i Browbeat. Siamo stati una band che, all’epoca, ha fatto parecchie cose interessanti in ambito hardcore/metal, poi ci siamo sciolti nel 2007 e da lì sono nati i The Modern Age Slavery. Poi, nel 2017, ci siamo riformati e siamo ancora in attività. Da allora, abbiamo realizzato un disco, “Remove The Control”, e l’EP “The Showdown”, e ora stiamo finendo un album nuovo. E poi, sì, nel 2020 ho formato gli Over A Barrel con il mio vecchio compagno Imer Bigi, che aveva suonato insieme a me nei Biotech, con cui facevamo una specie di misto tra thrash, groove e technical death, con tanti tempi dispari nel mezzo. Utilizzavamo anche le chitarre synth, eravamo parecchio avanti per gli anni ’90. Quando ci siamo sciolti, lui è entrato nei Dark Lunacy come bassista, ha registrato con loro tre o quattro album e, poi, è uscito anche da lì. Siamo amici da sempre, abitiamo nello stesso paese e quando mi ha chiamato ha detto: “Dai, ho voglia di tornare un po’ a suonare, facciamo qualcosa, ho delle idee. Dammi una mano”. Gli ho risposto: “Va bene, perfetto”. Ci siamo trovati a casa sua a pianificare le cose e niente, da lì è partito prima un pezzo, poi l’altro, siamo arrivati a otto. Da parte mia, ho programmato la batteria, ho suonato il basso e le chitarre, lui è venuto a cantare in studio, poi abbiamo mixato e masterizzato il tutto. Secondo me, è venuto un fuori un bell’album death/grindcore, lo abbiamo fatto in sei mesi e con poche pretese, non ha momenti morti ed è direttamente in your face. D’altronde, lui voleva proprio una cosa così, con quel suono HM-2, che è il nome del pedale della Boss che fa quel suono bello marcio.

Sei polistrumentista, dunque. Questo ti agevola?

Sì. Suono il basso, poi ho anche qualche piccola nozione di pianoforte, diciamo che le uso quando devo comporre. Da piccolo, ho studiato solfeggio e se non lo avessi fatto non avrei potuto suonare le sincopi e coi tempi dispari. Adesso, chiaramente, quell’esperienza mi serve ancora di più, perché, quando registri i dischi, comunque molta gente viene in studio da te anche un po’ per il tuo sapere in ambito musicale. Se tu mi chiedi una cosa, io ti devo saper rispondere, capito? Poi, come dico sempre, io a volte propongo anche delle cose alle band. Magari dico: “La facciamo più stoppata quella roba lì?”. Io propongo, poi, se non piace, non c’è nessun problema. Sono molto umile da quel punto di vista lì, sono tanti anni che io e Simone registriamo con tantissime band e stiamo continuando ad avere lavoro, per fortuna. Abbiamo avuto un piccolo calo durante la pandemia, ma diciamo che va bene, siamo contenti.

Il tuo strumento principe resta, in ogni caso, la chitarra. Hai dei modelli di chitarrista? E chi ti piace maggiormente di quelli odierni?

Sarà un caso, ma adoro Jimi Hendrix, era mancino come me. È stato il precursore assoluto, sono molto legato ai suoi dischi, li ho tutti, mi piace un casino. Poi, un po’ come tutti, ho amato il periodo dei virtuosi, i vari Van Halen e Yngvie Malmsteen, e ovviamente, Dimebag Darrel, mi è sempre piaciuto il suo suonare “semplice”. Dino Cazares mi piace tantissimo, è un chitarrista che è riuscito a crearsi uno stile unico. Prendi cinquanta chitarristi, poi suona lui e senti subito il suo tocco. Un chitarrista che mi piace, in verità già da tempo, è Wacław Kiełtyka, quello dei Decapitated che suona anche nei Machine Head. Secondo me, è molto bravo. Un altro chitarrista che mi piace molto, di quelli moderni, è Joshua Travis degli Emmure, soprattutto nei suoi progetti solisti, fa delle robe pazzesche e supertecniche. Ma mette la tecnica al servizio delle canzoni, che non è facile. Di solito, si fa il contrario, molti chitarristi non hanno gusto e utilizzano la tecnica per coprire mancanze di altro tipo. E poi ti fa anche delle robe strapesanti, che quando le senti dici: “Cavolo, che figata!”. Gli Emmure non mi dispiacciono,  però, a volte, i dischi sono un po’ noiosi.

Torniamo un attimo ai The Modern Age Slavery. Avete pianificato qualcosa per i prossimi mesi, tra tour, festival e show singoli?

Abbiamo fatto alcune date qua in Italia, saremo a metà giugno a Carpi, in provincia di Modena, per il Rottura Del Silenzio Fest, che esiste da più di vent’anni, e stiamo pianificando alcune cose per il futuro prossimo, soprattutto per l’estero. Siamo in contatto con alcune booking agency interessanti, ma i tempi si sono un po’ dilatati, perché comunque la situazione non è proprio il massimo. Magari annunciano venti tour e otto li cancellano. Il discorso è che, purtroppo, i costi sono aumentati a livelli mostruosi, cioè la pandemia, da quel punto di vista, ha distrutto un sacco di robe e ha fatto cambiare il mestiere a tanta gente, tra cui molti tecnici, fonici e roadies; quindi, quei pochi che ci sono, e tra di loro aggiungo i driver dei tour bus, si fanno pagare parecchio. Non ti so dire cifre precise, ma se prima un tour bus in affitto con un driver costava dieci, adesso costa diciassette, diciotto, ok? È tutto quasi raddoppiato, dalla benzina alle autostrade e, dunque, si fa più fatica. Conta, poi, che tanti locali piccoli, che comunque erano già allo stremo, hanno dovuto chiudere, quindi vuol dire che c’è anche meno spazio per suonare. Quei locali che ti potevano assicurare, non so, sette, otto date certe con almeno cento persone, non ci sono più. Ci sono tante band, c’è poco posto e quindi è tutto un po’ così, quindi chiaramente i tempi si allungano, ma anche per le agenzie grosse. Come ti ho detto prima, comunque ci stiamo muovendo perché vogliamo promuovere l’album al meglio e vogliamo suonare il più possibile, ovunque e dovunque.

Visto che suonate molto all’estero e intendete continuare in questo senso, da quali nazioni avete ottenuto i migliori responsi?

Germania e Olanda sono bellissime e rispondono sempre alla grande. La Francia, pian pianino, sta andando molto su, infatti un po’ questa cosa mi fa arrabbiare, perché, cavolo, una nazione che, secondo me, con tutte le loro fighetterie, è l’anti-metal per antonomasia, ci sta facendo un culo così, a livello di band e a livello di movimento. A livello discografico, poi, hanno una Season Of Mist che è una label di riferimento incredibile, mentre in Italia non esiste un’etichetta del genere. E hanno una band enorme come i Gojira, per non parlare di una scena black metal eccezionale. Ma il discorso è che ce l’avremmo anche noi qua in Italia una scena metal coi fiocchi, ma nessuno investe. Lì, in Francia, te lo spingono alla grande il prodotto, non come qui in Italia, dove comunque ci sono band eccezionali che, a parità di mezzi, non hanno nulla da invidiare ai gruppi stranieri.

Confermo. Io abito nel Lazio e qui ce ne sono tante di band valide, soprattutto a livello death metal.

A Roma, a livello death metal, siete spaventosi, penso agli ADE, ma anche agli Hour Of Penance, di cui apprezzo tantissimo “Paradogma”, uno degli album migliori di metallo della morte a livello mondiale. Oggi il ragazzino giovane ha la testa alla trap e a cose del genere. Eppure, se un multimilionario decidesse di investire dieci milioni di euro sulla scena metal italiana, ti garantisco che, nel giro di un anno, il metal diventerebbe come la trap di adesso, le canzoni passerebbero a Radio Deejay e le band occuperebbero le copertine di Rolling Stone Italia. Io la vedo un po’ così, magari mi sbaglio, però, con i soldi investiti a dovere, si creano movimenti musicali. Certo, deve esserci un rientro economico e capisco che non è facile.

Il discorso di fondo è economico, ovvio. Certo, resta significativo che una webzine come MetalSucks vi consideri una delle band più sottovalutate d’Italia e d’Europa.

Lì c’eravamo noi, diciamo, come “capro espiatorio”, ma era appunto inteso per i discorsi che facevamo prima sulla qualità delle band italiane. Certo, non c’è un ritorno economico come si deve per chi suona. Capisco che magari, quando arrivi a una certa età e metti su famiglia, chiaramente non puoi più pretendere di fare i chilometri guadagnando una miseria. Se devo campare, col death metal non riesco e, quindi, capisci perché molta gente poi pianta lì. Devi essere forte mentalmente, perché sai che, comunque, c’è sempre da rimboccarsi le maniche. E ti dico che a viverci, con la musica, sono solo le band gigantesche. La maggior parte sopravvive. Mi ricordo, anni fa, quando c’è stata la storia di Frank Mullen dei Suffocation, che, prima di mollare la band, faceva solo le date negli USA perché non riusciva a prendersi le ferie dal lavoro per venire in Europa. Cioè, stiamo parlando dei Suffocation, capito? Una band che ha fatto la storia! E poi molte formazioni sono in una sorta di limbo. Magari non sei più la band di amici che suona per divertimento, hai fatto comunque degli investimenti per arrivare dove sei arrivato e continui a farli, però non sei neanche quella band che è arrivata a un livello tale da dire: “Ok, posso fare delle cose a livello superiore”. Quindi, sei un po’ in una via di mezzo, fai le cose fatte bene in maniera professionale, quasi da professionista, ma, a volte, non le puoi fare perché non hai il budget. Insomma sei lì, però, in un attimo, puoi anche tornare indietro. Non è come quando, invece di stare in casa a guardare la televisione, vai in sala prove con gli amici, ti bevi una birra, poi è finita lì. Qua è diverso, perché comunque, sai, hai degli impegni, delle responsabilità, c’è della gente che ti segue, devi comunque cercare di dare il massimo perché questo è un mondo di squali. Guarda, ricordati sempre che la gente, se fai novantanove concerti da paura su cento, rammenterà quello sbagliato e dirà: “Ah, i The Modern Age Slavery, la band che ha fatto quel concerto di merda!”. È così, purtroppo.

Avete ricevuto delle critiche simili? O altre tipologie di giudizi?

Per fortuna, mai. Siamo sempre riusciti ad avere uno standard che ci ha permesso di fare dei bei concerti. Poi, chiaro, ci sono state delle volte che abbiamo dato il 110%, altre un po’ meno, ma capita, non tutte le serate sono uguali; il tuo compito lo fai sempre, ma è normale che non sei così esaltato quando ci sono poche persone a vederti rispetto a quando ci sono delle folle più consistenti. E comunque il tempo di criticare lo trovano. Quando sono uscite le news, la cover e la descrizione del nostro disco nuovo, su un sito un utente ha commentato dicendo: “Copertina ambigua”. Ok, va bene, ma non vuol dire niente. Poi esce il video di “Pro Patria Mori” e il tizio commenta di nuovo: “Bello il pezzo, ma la copertina è ambigua”. Cosa significa se non argomenti? Questo per dire che dal momento che una persona si espone, che lo faccia musicalmente o sui social, è chiaro che può stare sul cazzo ad altri. Magari sono  invidiosi, o passi per uno spocchioso. Non lo so, però è allucinante, perché, poi, dopo, non ti danno una spiegazione. Ci può stare che ti critichino, è anche costruttivo, molte volte mi sono trovato d’accordo con certi rilievi  e con piacere ho detto: “Ah, ok, sai che effettivamente puoi aver ragione?”. Ma se mi dici una roba così, tanto per dire, non ha senso. Sui gruppi Facebook, poi, vedo delle cose raccapriccianti, tipo musicisti che litigano tra loro. Io direi loro: “Ragazzi, vi lamentate che non avete la possibilità di fare concerti, ma invece di perdere tempo a scrivervi delle cazzate tra di voi, andate in sala prove, oppure mandate le mail ai locali per suonare, state perdendo del tempo per niente, e poi non vi porta nulla perché è una guerra tra poveri”. L’italiano è un po’ così: quando tu fai qualcosa di leggermente superiore rispetto agli altri, quando sei, non dico “famoso”, però un po’ più avanti degli altri, ti criticano perché sono invidiosi, capito? Non è che dicono “Grande, questo qua sì che ce l’ha fatta. Si è fatto un culo della Madonna!”, ma gridano: ”No, questo qua è tutto culo e fa cagare”. È anche per questo che siamo messi così male. Se vai in Olanda o su in Scandinavia, è tutto un altro modo di concepire la musica, come arte e come lavoro. Il governo ti sovvenziona, ti offre strutture adeguate, c’è maggiore senso di aggregazione. Perché il metal, diciamo il rock in generale, lì è una cultura di massa. Quelle band lì vanno in televisione. Vedremo mai i Necrodeath su  Rai Uno? Non succederà mai.

Penso sia impossibile importare il modello scandinavo, la cultura musicale italiana è profondamente diversa, nel bene come nel male.

Assolutamente, ma, poi, non ci meravigliano quando dicono: “Ah, ma vengono tutti da lì?”. Grazie al cazzo che vengono tutti da lì. Partono a suonare da bambini e vengono introdotti in quel mondo sin da subito: e allora, cominciamo a farlo anche noi! Guarda, se i Måneskin fossero la band adatta a far capire all’Italia che il rock è una forma di cultura, ben vengano. Cosa vuoi che ti dica, sicuramente qualcosa di buono l’hanno fatto, magari molti ragazzi hanno cominciato a suonare il basso perché Victoria De Angelis lo fa. Hanno riportato finalmente una band italiana all’estero, perché quanti anni è che una band italiana pop non andava all’estero a quei livelli lì? Negli ultimi vent’anni ci sono stati solo dei fenomeni da pseudo boyband, tipo, non so, i Finley o i Velvet, ma mai al livello dei Måneskin. Se loro sono il lasciapassare per tante cose, per carità, ben vengano loro, non fanno nulla di male, fanno qualcosa di vecchio laccato di nuovo. Ci hanno dato una verniciata, l’hanno reso un po’ più moderno, poi loro hanno il look giusto e Damiano David è molto bravo a cantare. E poi, guarda, io leggo soprattutto i giudizi dei metallari, li odiano, ma, probabilmente, sono anche invidiosi che quattro ragazzini così siano diventati la band più famosa italiana nel mondo. Quando succedono cose del genere, guardiamo il lato positivo, non guardiamo il lato negativo. Nei Måneskin c’è il culto della band, c’è il culto di suonare insieme, perché adesso sai, con la tecnologia, con l’intelligenza artificiale, schiacci due tasti e suoni, cioè l’arte sta andando a puttane e in Italia più che altrove. Sto vedendo da un po’ che l’andazzo è quello, perché la gente vuole tutto e subito e altrettanto velocemente digerisce il prodotto. È la musica usa e getta, quella che io vedo come un bicchiere di carta, da cui raramente bevi due o tre volte; istintivamente ti viene voglia di schiacciarlo e buttarlo via, e questa è la musica. Ormai, non vanno neanche più di moda i dischi, una band dovrebbe fare solo singoli perché la gente ascolta solo quelli. Purtroppo, è cambiato tutto: è brutto, perché mi piacciono le cose alla vecchia maniera, ma il problema è che, se vuoi stare un po’ al passo coi tempi, ci devi entrare in questo mondo qua e devi essere furbo.

Convengo con te. E sono dell’idea che conoscere il passato è importante, ma che bisogna necessariamente andare avanti, evitando di risuscitare una musica oggi improponibile.

Esatto, bravo, d’accordissimo con te. Il passato aiuta a capire cose che un ragazzo giovane non comprende, perché non ha i tuoi ascolti e non ha vissuto quel periodo, gli anni ’80 e ’90, dove le cose, comunque, giravano per il verso giusto, o perlomeno così sembrava. Poi, è chiaro, le mode c’erano anche lì, perché ricordo quando scoppiò il fenomeno grunge: tutti a vestirsi coi camicioni, tutti depressi. Quando, nel ’91, è uscito “Nevermind”, il grunge è diventato mainstream: i Nirvana li trovavi anche sui diari, gli zaini, le cartelle, pure nelle patatine. C’era un business incredibile, poi Kurt Cobain era diventato l’emblema della sua generazione. Ti dirò, forse è stata l’ultima grande rockstar. C’era anche Axl Rose, però non è stato impattante come Cobain, era diverso ed è durato anche molto poco. Poi la morte lo ha reso eterno.

Di fatto, il grunge è stato l’unico movimento alternative a imporsi a livello globale.

Sì, è vero. Subito dopo, hanno cominciato a trattare la musica come un prodotto commerciale. Poi, tra la fine dei ’90 e l’inizio dei 2000, sono iniziate le prime piattaforme gratuite, tra cui Napster, la musica iniziava a essere associata ai brand e via dicendo. Poi, in quel periodo, è esploso il nu metal e tutte quelle band, dai Korn ai Limp Bizkit, erano super, anche loro mega commerciali, e quindi anche lì dopo c’è stato un movimento incredibile.

Luca, grazie mille per il tuo tempo. Vorresti lasciare un messaggio a tutti coloro che ti leggeranno?

Giovanni, intanto ti ringrazio per l’intervista, che è stata bellissima sia perché si è parlato di tante cose sia per lo spazio che mi hai e ci hai concesso. E niente, ci potete trovare su tutte le piattaforme social, Instagram, Facebook, digitate The Modern Age Slavery e troverete tutto. Ringraziamo anche tutti gli ascoltatori nostri fan e i lettori di SpazioRock. Spero di vedervi presto on stage, così ci godiamo una bella serata all’insegna del death metal.

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