Foto di copertina: Sim Panesar

Balham, Londra Sud. La zona non mi aiuta a mettermi di buon umore. Sabato mattina, esco per incontrare Dan Caleb qui a casa sua, ma prima mi prende una devastante voglia di English breakfast. Sicuro della facile attuazione del mio piano, arrivo nei paraggi un’oretta prima ma niente, sono costretto ad andare di cornetti alla crema (genericamente parlando) visto che le caffetterie qui nei dintorni pare la buttino tutte comunque sul dolce. Dov’è finita la tradizione della colazione inglese a solo cinque sterline, caffè incluso? Penso, e mi compiaccio della connessione, che forse Balham, proprio come la musica di Dan e dei suoi Calebo, appaia ancora indecisa tra sonorità di un glorioso passato e quello che invece la musica nuova forse ha ancora da dare, senza saperlo… di poterlo dare. Questo però, al contrario di Balham e della sua assenza di uova strapazzate, verte a favore dei Calebo, con le loro atmosfere profonda ma mai noiose, tocchi leggeri ma mai frivoli. Musica inquieta, ma sottilmente – sia che ci sia un mirabolante lavoro di chitarre elettriche (“In my dreams”) o un gentile intreccio di linee melodiche (“On the hillside”).

Incontro Dan e inizia una chiacchierata di quelle che non sai se siano passate due o cinque ore. Un po’ l’avevo inteso che ci sarebbe stato tanto da parlare. Dan (voce e autore principale) è il leader dei Calebo (con Georgia Maria alla chitarra solista, Rob Ouseley al basso e Roy Lubugumu alla batteria). La band cela bene anni di esperienza dietro un approccio fresco e una faccia sincera e pulita di tutti i loro membri – solo musica, il resto non conta, verrebbe da dire. Dan, inoltre, è uno dei tanti volti noti dell’affascinante circuito delle serate open mic qui a Londra, ed è cosi che l’ho conosciuto, anche se non ricordo quanti millenni prima e dove esattamente. Sorprendentemente, l’amatorialità del concetto di open mic si trasforma in una bella forza della natura quando le sue canzoni vengono interpretate dalla sua band in uno show vero e proprio. Il loro unico album online è bello presente, vivace, notevole nella composizione di canzoni mai banali, tanto gusto nel miscelare calma con momenti a volumi importanti.

Calebo photo by Daniel Turner 1
Foto: Daniel Turner

Alla luce di tale talento, Dan mi spiega il fondamentale motivo della sua irragionevolmente frequente presenza alle open mic (dove è facile essere ignorati o scambiati per un musicista della domenica): l’ha fatto davvero, e tanto, in passato per sconfiggere la sua stage fright, la sua paura del palcoscenico – l’ansia da prestazione. Forse mai sconfitta, ma sicuramente placata ora, e ben gestita. A volte si pensa che la stage fright sia solo un’eccessiva emozione prima di salire sul palco, magari delle mani un po’ troppo sudate. Dan mi spiega che per lui aveva fondamentalmente significato la rinuncia alla musica suonata, per un evidente malessere fisico anche giorni prima della più intima e semplice delle esibizioni. Fortunatamente il suo talento è stato assistito nel corso degli anni dalla sua intelligenza e quindi, tra meditazione e piccoli sensati passi, ora Dan dal vivo è abbastanza uno showman, tra scherzi col pubblico e un paio di canzoni urlate a pieni polmoni. Dal vivo, infatti, i Calebo sanno essere pure parecchio “heavy”. In studio invece si perdono un paio di decibel e si sta più attenti ai dettagli e alle parole: i suoi testi – spesso introspettivi – a volte per lo spettatore presentano passaggi oscuri. Sembrano belle poesie, seppur criptiche e vaghe. Glielo faccio notare e lui, divertito, mi dà ragione e mi rassicura che ha un paio di canzoni in prossima uscita dove sa di essere stato più chiaro.

La chiacchierata prosegue, Dan parla tanto quanto sa anche ascoltare, e con un chiacchierone come me non c’è scampo in questi casi. Siamo d’accordo su come nella musica sia ancora possibile trattare la stessa come una vera forma d’arte; come il concetto artistico di album (proprio come “Kaleidoscopic Mind” dei suoi Calebo) sia ancora valido e l’artista, se tale e sincero, non dovrebbe mai piegarsi sempre e solo a una serie di singoli mordi e fuggi nella speranza che qualcuno riprenda il suo brano sui social network. Quelle trappole dove, per uno che ce la fa, migliaia e migliaia fanno solo buchi nell’acqua – sprecando magari qualcosa di buono.

Calebo photo by Tom Caleb 1
Foto: Tom Caleb

Spostandoci sul mero e proprio unico album della loro discografia, “Kaleidoscopic Mind” inizia con una traccia intro, e qui possiamo forse storcere il naso. Solitamente le intro, quelle intitolate proprio “intro”, lasciano il tempo che trovano – per fortuna poco – e rappresentano spesso un passo falso: invece di partire con la canzone più bella all’inizio del viaggio, certe band piazzano questa roba concettuale di cui probabilmente anche loro ne dimenticano il significato dopo qualche giorno. In questo caso, però, Dan e i suoi Calebo fanno bene quello che è facile sbagliare per altri, mi piace pensarla così. La loro intro consiste quindi di un breve discorso su, udite udite, il capitalismo e le impossibilità di chi non ha fondi a sufficienza (“It is not what you have, it is what you do with what you have”). Insomma, su chi cerca scuse. Dan mi spiega che quel fugace audio è un brevissimo estratto di un bel più lungo discorso ad opera di tale Manly P. Hall, scrittore e mistico dei primi del Novecento di cui Dan ne apprezza, tra le altre cose, la semplicità e chiarezza di linguaggio. Trovo quella introduzione geniale, una perfetta opening per un album dove in apertura e chiusura la fanno da padrone canzoni quali “I’m only a guest in the house of the Lord” e “In my dreams” che tradiscono una passione per gli anni Novanta, per qualche vaga nota di Seattle fino a spingersi all’indie più maturo degli inizi dei Duemila, mentre nel mezzo dell’album i Calebo riescono a ricordare i Simon and Garfunkel più sopraffini, senza limitarsi esclusivamente a intelligenti arpeggi. La band oscilla tra questi due mondi, eppure risultando inspiegabilmente in un’identità abbastanza definita e promettente per i prossimi album. Dan, a cui piace rovistare tra le sue vecchie composizioni per aggiornarle continuamente, non dovrebbe faticare a tirare qualcosa fuori in un futuro abbastanza prossimo.

Ci salutiamo, e gli chiedo quali programmi abbia per il resto del sabato. Mi dice che va a casa di Georgia, la sua chitarrista e grande amica, e lì passeranno tutto il pomeriggio a giocare a Mario Kart. Come per tutto il resto, il suo piano mi sembra essere l’idea migliore, bilanciata e sensata. In fin dei conti e tra tutto quello che si potrebbe fare, e proprio come con la musica dei Calebo, tutto torna, in qualche modo, senza andare a complicarsi la vita. Mentre mi avvio verso la metropolitana mi ricordo di non avergli chiesto a proposito della grave assenza di colazioni English breakfast lì a Balham, magari avrebbe avuto una buona spiegazione anche per quello.

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