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È davanti agli occhi di tutti come, nell’ultima manciata di anni, diverse frange del metal estremo abbiano guadagnato popolarità, uscendo dalle caverne infernali dell’underground e riuscendo addirittura, in alcuni casi, ad affacciarsi al panorama mainstream. Non sono poche le band death metal, deathcore e post hardcore che stanno riuscendo a raccogliere – anche in Italia – più di qualche centinaio di persone, ma quanto visto venerdì sera all’Alcatraz di Milano di logico ha veramente poco.

La popolarità dei Lorna Shore è cresciuta a dismisura con l’arrivo del cantante Will Ramos e la conseguente pubblicazione di “…And I Return To Nothingness” e “Pain Remains”, due lavori con un sound estremamente personale e particolare, che ha proiettato gli statunitensi ad un successo meritato, quanto inaspettato, anche grazie alla diffusione social di diversi estratti di brani – siamo seri, chi girovagando su internet negli ultimi due anni non ha mai sentito il breakdown di “To The Hellfire”? Con questi presupposti, la band si inoltra un tour che, per molti Paesi rappresenta la prima occasione di vederla su un palco proprio. In Italia, il battesimo da headliner dei Lorna Shore avviene in un Alcatraz praticamente sold out e se qualcuno aveva particolari dubbi a riguardo, bastano solo due minuti per zittirlo e farlo rimanere a bocca aperta.

Ma, andando con ordine, i cinque non sono soli in questa impresa e si presentano alla carneficina milanese con un esercito di cattiveria e breakdown mortali. Ad aprire le danze (o il mosh pit, in questo caso) sono i Distant, che dopo essere saliti sul palco sulla sigla di Spongebob, non perdono tempo e iniziano a martellare senza pietà, dandoci l’antipasto perfetto per quello a cui assisteremo per il resto della serata. Forti della pubblicazione recente di “Heritage”, i quattro propongono diversi brani anche dal precedente “Aeons Of Oblivion”, trovandosi davanti quello che è già un pubblico delle grandi occasioni: fin dalla prima nota si formano giganteschi circle pit e quella che avviene nelle prime file è una vera e propria mattanza, mentre più dietro non c’è davvero nessuno che riesca a tenere ferma la testa, mentre veniamo storditi dalle evoluzioni vocali di Alan Grnja.

IngestedLive

Non c’è nemmeno un po’ di tempo per rilassarsi un attimo e fare un po’ di stretching prima di rilanciarsi nel calderone infernale di urla, gambe, braccia e sudore: quasi immediatamente tocca agli Ingested. I britannici salgono sul palco e la festa può riprendere esattamente da dove si era fermata qualche minuto prima: la band propone infatti un deathcore moderno relativamente simile a quello dei Distant, forse con pezzi leggermente più lunghi e articolati, ma che riesce comunque a far immediatamente presa sul pubblico, che anche in questo caso riceve con piacere tutta la violenza – e non è poca – che gli Ingested scagliano dal palco, trasformandola in urla, salti e wall of death. Il quartetto ci regala estratti da tutta la discografia, oltre che un pezzo inedito, ma ovviamente sulla stessa scia sanguinolenta dei precedenti. I fan – e non solo – non possono che goderne.

RiversOfNihil

Altra breve pausa in cui la birra scorre a fiumi e dopo nemmeno 20 minuti le luci si spengono nuovamente, mentre i Rivers Of Nihil salgono sul palco. Seppur ancora in fase di rodaggio, dopo lo split dal cantante Jake Dieffenbach, il quintetto appare solido. Il bassista Adam Biggs sembra reggere bene l’addizionale ruolo vocale e viene ben supportato da tutta la band, che snocciola brani che attraversano tutta la discografia, presentando anche il nuovo singolo “The Sub-Orbital Blues”. Rispetto a Ingested e Distant, i Rivers Of Nihil insistono maggiormente sul death più che sul suffisso -core, offrendo pezzi che, seppur paragonabili ad un uragano, attraverso anche parti di relativa calma e melodia, con i quali i presenti possono tirare il fiato.

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Il cambio palco questa volta richiede qualche minuto in più e mentre l’impianto audio dell’Alcatraz ci offre una straniante quanto divertente playlist che alterna pezzi pop e trap (chi poteva immaginare di poter canticchiare le t.A.T.u. e Pop Smoke in attesa di una delle band più mortali dell’attuale panorama metal?), notiamo con piacere l’eterogeneità dei fan che ci circondano. Scordatevi l’esercito univoco di magliette nere e capelli lunghi (che sì, ovviamente sono anche presenti): come la band, anche il pubblico dei Lorna Shore costituisce un’eccezione che raggruppa giovani e più attempati, ognuno proveniente dai propri lidi musicali, che, in un momento illogico quanto meraviglioso, si trovano insieme ad ammirare una band (per dirla brevemente) deathcore. Ma, come dicevamo all’inizio, bastano pochi minuti dall’inizio dello show per rendere spiegabile questa illogicità: quello che riescono a fare i Lorna Shore sul palco è davvero da ammirare nel vero senso del termine, indipendentemente dai propri gusti e preferenze musicali.

Lo show messo in piedi dal quintetto è di quelli memorabili, dalla produzione che prevede anche l’uso di giochi pirotecnici, ad una resa live dei pezzi semplicemente perfetta. A fronte di un genere così caotico sarebbe semplice aspettarsi suoni “impastati” o mixati male, ma la semplice verità sta nel fatto che fin dall’inizio di “Welcome Back, O’ Sleeping Dreamer” veniamo travolti da una tempesta perfetta, orchestrata dai colpi dell’instancabile Austin Archey. Ogni strumento è perfettamente equilibrato e si incastra con le basi orchestrali che caratterizzano i pezzi della band, andando a tessere un caos ordinato difficile da catalogare e soprattutto da trovare altrove.

WillRamos

Gli statunitensi propongono una setlist incentrata sugli ultimi due capitoli discografici, ad eccezione della sempreverde “Immortal”. Si tratta di una scelta corretta e azzeccata, essendo proprio questi i lavori che li hanno consacrati presso il grande pubblico e soprattutto quelli su cui c’è la firma di Will Ramos, un essere che sul palco non si può definire umano. I suoni prodotti dal cantante sono qualcosa che vanno semplicemente oltre la fisica, la biologia, la medicina e qualsiasi altra legge sotto l’umana comprensione. Sono i ruggiti di una belva famelica proveniente da un altro mondo, giunta a noi con il solo scopo di incutere timore e dilaniare. Ma più che rimanere increduli davanti a “To The Hellfire”, “Into The Earth”, “Of The Abyss” (che vede anche la partecipazione di Alan Grnja) e “Sun//Eater”, quello che sorprende è la sua tenuta, che rimane la stessa per tutta la durata dello show – e fa quasi sorridere vederlo interagire simpaticamente con il fan tra un pezzo e l’altro, prima di ritrasformarsi nella belva famelica.

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Lo show viene conclusivo dal rollercoster emotivo delle tre parti di “Pain Remains” e dopodiché ci mettiamo diversi secondi a tornare alla realtà, ancora storditi e increduli di quello di cui siamo stati testimoni. Fuori dall’Alcatraz si è alzato un vento di quelli che si vedono tre volte l’anno da queste parti: evidentemente a qualcuno molto in alto, la tempesta perfetta dei Lorna Shore è piaciuta così tanto che ha voluto proseguirla anche fuori, una volta terminato lo show. Come biasimarlo?

Setlist

Welcome Back, O’ Sleeping Dreamer
Of the Abyss
…And I Return to Nothingness
Sun//Eater
Cursed to Die
Immortal
Into the Earth
To the Hellfire
Pain Remains I: Dancing Like Flames
Pain Remains II: After All I’ve Done, I’ll Disappear
Pain Remains III: In a Sea of Fire

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